Il Conclave che si conclude con l’elezione al soglio di Pietro di Leone XIII fu per una serie di motivi uno dei più importanti, significativi e difficili della storia della Chiesa di Roma, basti solo che fu il primo dopo la perdita del Patrimonium Petri e soprattutto il primo dopo il tramonto del potere temporale.
Quello che segue è il racconto di un’elezione che alla fine risultò più semplice del previsto, maturata in un contesto segnato da tensioni politiche, problematiche logistiche e pressioni internazionali che resero quel Conclave davvero storico.
L’elezione di Leone XIII: la sede del Conclave
Vaticano, lunedì 7 febbraio 1878. Sono da pochi minuti trascorse le sei di una fredda notte che prova a difendersi dal sopraggiungere dell’alba, quando papa Pio IX muore.
L’ultimo papa re, da meno di otto anni “prigioniero” nel piccolo stato che gli è rimasto dopo la Breccia di Porta Pia, muore per le fatali conseguenze di una crisi epilettica. Un mese esatto prima, il 7 gennaio, era morto Vittorio Emanuele II che del papa originario di Senigallia era stato il suo principale avversario.
Mentre il sole in quel mattino di inizio febbraio prova a insinuarsi nelle inaccessibili stanze vaticane, tra i più stretti collaboratori del defunto pontefice inizia a pesare come un macigno il problema della sede dove tenere l’imminente Conclave, una questione che già Pio IX aveva sollevato negli ultimi tempi, prospettando conseguenze nefaste qualora il futuro conclave si fosse tenuto a Roma.
La Città eterna non solo non appartiene più alla Chiesa ma è soprattutto la capitale di un regno nemico, sul cui trono siede il discendente di quel sovrano, Vittorio Emanuele II che Pio IX aveva scomunicato, considerandolo un miscredente ma che era morto «con i conforti della religione» come si affretta a precisare nelle ore immediatamente successive la morte del primo re d’Italia, l’allora ministro dell’Interno Francesco Crispi, forse colui che più si è speso perché il gravame della scomunica fosse in qualche modo superato.
Per molti cardinali tenere il prossimo conclave a Roma non è la migliore delle scelte. Alla base dei tentennamenti di questi porporati ci sono motivazioni legate alla scarsa sicurezza della sede ma anche all’inopportunità di eleggere il nuovo papa in una città, un tempo fulcro della cattolicità e ora sede di una dinastia che ha costretto un papa a ritirarsi in Vaticano.
Il problema della sede conclavista esplode l’8 febbraio in occasione della prima congregazione dei cardinali. Solo otto di loro sui trentasette presenti, sono favorevoli a tenere la prossima elezione papale a Roma, ovviamente non più nel palazzo del Quirinale, la sede degli ultimi quattro conclavi, compreso quello che ha eletto il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, visto che quella fu la dimora preferita di pontefici quali Sisto V, Paolo V ma anche Urbano VIII non è più disponibile, essendo da quasi un decennio la residenza dei Savoia.

Coloro che sostengono soluzioni esterne, ben ventitré tra cui il decano Oreglia, avanzano diverse proposte, talune anche ardite. Da Venezia, già sede conclavista in occasione dell’elezione del cesenate Barnaba Chiaramonti, il futuro Pio VII, a Londra; da Monaco d’Italia, suggerita dal cardinale Carlo Sacconi a Malta, ipotizzata dal camerlengo Gioacchino Pecci e dal vescovo di Frascati Filippo Maria Guidi.
Qualche porporato avanza l’idea di Parigi, scelta che ben piacerebbe al presidente francese Mac-Mahon, mentre decisamente singolare è la proposta del cardinale Innocenzo Ferrieri che non senza sarcasmo per quelle evidenti divisioni, suggerisce di tenere il prossimo conclave su una mongolfiera.
Tuttavia, già dalla successiva congregazione, quella del 9 febbraio, la vexata questio sulla sede conclavista inizia a definirsi a favore di Roma con buona pace del cardinale Monaco La Valletta che, temendo il pesante clima politico che potrebbe gravare sul futuro conclave, si chiede se non sia preferibile «venire subito all’elezione del papa etiam praesente cadavere onde evitare qualsiasi violenza.»
A dipanare il nodo gordiano è soprattutto il prodecano Camillo Di Pietro. Per l’ex nunzio apostolico a Lisbona la scelta di Roma rimane non solo la migliore ma anche la più percorribile, anche perché nessuna potenza straniera ha formalmente avanzato alcun invito alla Santa Sede.
Il parere del romano Di Pietro, personalità molto ascoltato nel collegio cardinalizio, ha un peso specifico, al punto che nella successiva votazione i favorevoli alla soluzione esterna si riducono a cinque a fronte di ben trentadue che ritengono la Città eterna, nonostante tutto, la soluzione migliore.
Chi scegliere?
Stabilita non senza fatica la questione logistica, rimane quella dirimente di chi scegliere come 256° vescovo di Roma, non proprio un problema di facile risoluzione, viste le diverse posizioni in campo, alcune già emerse nel corso delle congregazioni preelettorali.
Il conclave si apre ufficialmente il 18 febbraio 1878 in un clima tesissimo. Sul collegio cardinalizio pesa la gravità di una scelta che non è solo religiosa ma, inevitabilmente, anche politica. Eleggere il vicario di Cristo, dopo l’interminabile pontificato di Pio IX, ad oggi il più duraturo della storia con i suoi 31 anni e 236 giorni, è una responsabilità enorme anche perché il tramonto del potere temporale non ha allontanato dai palazzi apostolici l’interesse delle diverse potenze europee che ancora vogliono esercitare quelle pressioni che da secoli hanno segnato in negativo non poche elezioni papali
Ma sulla scelta del nuovo papa pesa anche il problema non risolto del Concilio Vaticano, inaugurato l’8 dicembre 1869 e sospeso all’indomani della conquista sabauda di Roma dopo meno di un anno di lavori che, tuttavia, avevano già determinato l’adozione di provvedimenti nodali come il dogma dell’infallibilità del magistero petrino in materia di fede e di morale, la cui approvazione aveva creato non pochi contrasti tra i padri conciliari.
Tensioni che non mancano neppure nel collegio cardinalizio mai così composito per via della nazionalità dei cardinali, in maggioranza nominati da Pio IX. Ai trentasette italiani che rappresentano ancora la maggioranza si contrappongono altri gruppi nazionali tra cui il più nutrito è quello francese, formato da nove cardinali, di cui il più celebre è Lucien-Louis-Joseph-Napoléon Bonaparte che nel suo albero genealogico vanta la discendenza con Napoleone Bonaparte.
Tra i sessantaquattro porporati costituenti il collegio cardinalizio si contano anche sei austroungarici, quattro spagnoli, tre britannici, un portoghese, un tedesco, un belga e persino uno statunitense, il metropolita di New York John McCloskey che però arriverà a Roma a Conclave concluso.
Tra i sessantuno cardinali che effettivamente mettono piede nella Sistina, oltre a McCloskey non partecipano neppure l’irlandese Cullen e il francese Brossais Saint-Marc, ci sono alcuni che godono inevitabilmente dei favori dei pronostici.
Tra gli stranieri i più quotati sono il polacco Ledochowski, l’inglese Manning ma anche l’altoatesino Franzelin; nel nutrito gruppo degli italiani, invece, i nomi più gettonati sono quelli del prefetto della congregazione Propaganda Fide il cardinal Franchi, quello del vicario di Roma, Monaco La Valletta ma anche quello del recanatese Lorenzo Nina.
Il più quotato e al tempo stesso temuto è il Penitenziere Maggiore Luigi Maria Bilio. Nominato cardinale nel 1866, Bilio è stata l’ombra teologica e giuridica di Pio IX. È lui a redigere la discussa enciclica Quanta cura, l’atto papale di condanna dei principali errori della società moderna, tra cui il socialismo, il naturalismo, la libertà di stampa, le società bibliche; ed è sempre il cardinale originario di Alessandria a compilare il Syllabus che della Quanta cura è la naturale appendice. Ma Bilio è l’autore formale anche dell’atto sospensivo del Concilio Vaticano I, nonché del testo della Leggi Guarentigie tra Stato Pontificio e Regno d’Italia. Nomi importanti, profili autorevoli sui quali, tuttavia, si palesano fin da subito i vari veti delle potenze straniere.
Da Vienna arriva il veto su Ledochowski e su Franzelin. Da Parigi, invece, quello sul potente Bilio, il quale, compreso di non avere alcuna chance, propone Tommaso Maria Martinelli, candidatura, però, stroncata dal cardinale Domenico Bartolini, per il quale il titolare della basilica di Santa Prisca è uno zotico, uno che «per strada se vede le donne fa le corna.»
Ma sarà proprio Bartolini il raffinato tessitore della tela che porterà in un tempo incredibilmente breve all’elezione dell’arcivescovo di Perugia il cardinale Gioacchino Pecci.
L’elezione di Leone XIII
«Il cardinale Pecci è uno certo dei più eletti ingegni del Collegio e delle nature meglio temperate, e più sanamente vigorose, che ne facciano parte. Ha studiato bene; ha governato bene; è stato vescovo egregio.»
A scrivere questa sequela di complimenti è il napoletano Ruggero Bonghi, esponente di spicco della Destra storica, già ministro della Pubblica Istruzione, nonché apprezzato giornalista. Per Bonghi il vescovo di Perugia è il nome giusto al momento giusto.
Originario di Carpineto romano, classe 1810, Gioacchino Pecci è un uomo di straordinaria cultura, non palesemente schierato con alle spalle importanti incarichi diplomatici, tra cui la nunziatura in Belgio, dove affina la conoscenza del francese, la lingua della diplomazia.

Nel 1846 è nominato vescovo di Perugia, dove vi rimane per oltre trent’anni, nonostante, nel frattempo, sia stato nominato da Pio IX cardinale, nel concistoro del 19 dicembre 1853.
Il nome di Pecci inizia a farsi strada nel conclave apertosi il 18 febbraio, tra elevate misure di sicurezza garantite dalle forze armate italiane al fine di evitare qualsiasi tipo di incidente.
Ad avanzare la candidatura dell’arcivescovo di Perugia è per l’appunto Domenico Bartolini, convinto che su di lui possa facilmente convergere la maggioranza degli elettori.
Pecci, d’altra parte, possiede un profilo decisamente interessante; non oscurantista ma neppure eccessivamente progressista, aperto al dialogo anche verso quei settori della società decisamente distanti dalla Chiesa, colpevole di aver perso la funzione interlocutrice con lo Stato moderno. Pur essendo stato nominato da Pio IX, Gioacchino Pecci non può essere annoverato tra i più accaniti sostenitori del pontefice marchigiano, avendo in più di un’occasione mostrato di non condividere totalmente le nette posizioni di papa Mastai, preferendo assumere posizioni più defilate, protetto anche dalla sua diocesi di Perugia dove come ricorda Giancarlo Zizola nel suo “Il Conclave. Storia e segreti” «s’era costituito un piccolo Vaticano, frequentato da intellettuali ed artisti, dove scriveva lettere pastorali che erano proprio il contrario delle encicliche di papa Mastai, perché affrontava con spirito positivo i maggiori problemi del tempo.»
Insomma, la candidatura del cardinal Pecci emerge con forza già in occasione del primo scrutinio che pur invalidato per errori procedurali, gli porta in dote 19 voti, consensi che aumentano considerevolmente in occasione del secondo spoglio, quando a inserire nell’urna la scheda con il suo nome sono ben 34 cardinali.
Per gli altri candidati non c’è speranza, neppure per il cardinale Franchi, l’unico che nei primi due scrutini prova a tenere testa a Pecci.
L’elezione dell’arcivescovo di Perugia è nell’aria e arriva il secondo giorno del Conclave, al termine del terzo, decisivo scrutinio, quando Pecci ottiene, grazie a una precisa azione diplomatica, anche il consenso dei cardinali tedeschi. Il 20 febbraio 1878 Gioacchino Pecci è eletto papa con 44 voti su 61. Al momento della scelta del nome, il cardinale originario di Carpineto romano non ha dubbi e sceglie quello di Leone, il tredicesimo nella storia della Chiesa di Roma.
Leone XIII muore il 20 luglio 1903, nel primo pomeriggio, dopo una lunga agonia, alla veneranda età di novantatré anni. Come richiesto verrà tumulato in San Giovanni in Laterano. Dopo di lui tutti i suoi successori saranno sepolti in San Pietro, almeno fino a papa Francesco la cui semplicissima tomba viene collocata nella navata laterale di sinistra di Santa Maria Maggiore, non distante dalla Cappella Paolina, sacrario di diversi altri pontefici, come Paolo V Borghese.
A proposito di Leone XIII e della sua profonda cultura, questo un singolare aneddoto raccontato dallo storico Alberto Torresani nel suo “Storia dei Papi del Novecento” a proposito degli ultimi istanti di vita di papa Pecci:
«Si può ricordare la sua perfetta a un prelato che confortava il suo trapasso e che impiegò un infinito deponente moriri, Leone XIII corresse: mori, prego.»