La stele di Rosetta e Jean-François Champollion, sono due facce di un’unica medaglia, quella di una scoperta che ha rivoluzionato molto di ciò che si sapeva sull’antico Egitto, permettendo, soprattutto, di squarciare il velo di mistero che avvolgeva quegli astrusi geroglifici sui quali studiosi di ogni epoca si erano inutilmente affaticati.
Il chiavistello che serrava quell’enigma fu sbloccato duecento anni fa, il 14 settembre 1822, quando il giovane Champollion annunciò che possedeva la chimerica chiave, grazie alla quale si spalancavano le porte di un sapere antico, decifrando, definitivamente, la “lingua degli dei”.
Da Menfi a Rosetta, il viaggio della più famosa stele di sempre
Correva l’anno 196 a.C. e a Menfi, la capitale dell’Antico Regno, città fondata 2700 anni prima della nascita di Cristo, un sinodo di sacerdoti promulga un decreto che come consuetudine viene scritto su una stele. Ma quei sommi religiosi non sanno di aver inciso su una lastra di granodiorite letteralmente la storia.
Il testo, decisamente agiografico, altro non è che il resoconto del primo anno di governo del faraone Tolomeo V Epifane Eucaristo, incoronato l’anno precedente a soli tredici anni e antenato di quel Tolomeo XV, sfortunatissimo unico genito di Cleopatra e Giulio Cesare, passato alla storia come Cesarione.
Si tratta di un vero e proprio elenco dei diversi buoni provvedimenti adottati dal sovrano in quei primi dodici mesi di regno. Si fa menzione dell’abrogazione di alcune tasse, della decisione di far erigere alcuni templi, ma si citano anche le generose elargizioni di cereali alle fasce più povere della popolazione e l’amnistia concessa dal faraone a diversi detenuti.
Uno spot pubblicitario, insomma, una manovra propagandistica per dare “graniticamente” risalto alla figura di Tolomeo V provando a calmare le perigliose acque egiziane, in un tempo segnato da striscianti lotte intestine per la conquista del potere e minacce sempre più pressanti al di fuori dei fragili confini.
Il contenuto di questa stele è scritto in tre diverse grafie: in greco, la lingua ufficiale del regno tolemaico; in egizio demotico che gli antichi egizi utilizzavano per i documenti ordinari e, infine, in egizio geroglifico, la lingua dei monumenti, degli atti più importanti, insomma la favella degli dei. Greco a parte, le altre due scritture presenti sulla stele non rappresentano differenti lingue ma un’unica sola, seppur proposta in due grafie diverse.
I secoli passano, la civiltà egizia viene seppellita dall’inesorabile trascorrere del tempo mentre la sabbia della storia ricopre tutto, non cancellando, però, le antiche, misteriose tracce.
In Egitto arrivano dall’Oriente i nuovi padroni. Questi fondano nuove città e in altri casi ne trasformano di precedenti; ovunque, però, innalzano nuovi edifici e soprattutto indispensabili fortezze. Sono avidi di materiali, per questo utilizzano di tutto, anche lastre in granito, anche con delle astruse, per loro, iscrizioni.
A Rashid, fiorente porto sul Mediterraneo e distante solo otto chilometri dalla foce del Nilo, città fondata nell’853 d.C. sulle preziose rovine della tolemaica Bolbitine, viene elevata una nuova fortezza e tra i “mattoni” utilizzati ce ne sarà qualcuno davvero importante.
Pierre-François Bouchard e la scoperta della Stele di Rosetta
I granelli di arena cadono lenti ma inesorabili nella stretta clessidra del tempo. Sul calendario della storia corre l’anno 1798 e ad Alessandria d’Egitto, nel mese di luglio, sbarca un giovane generale còrso, il suo nome è Napoleone Bonaparte.
Questi è alla testa di un esercito di trentottomila ardimentosi soldati con i quali stipulerà, senza ancora saperlo, un patto di sangue, un legame eterno che riecheggerà anni dopo al crepuscolo di un sogno, il giorno dell’addio di Napoleone ai suoi “vecchi” soldati.
Tra quelle distese di sabbia arse dal sole, mentre in lontananza si stagliano possenti i profili delle piramidi, quei militi guidati da quel piccolo visionario, provano a conquistare l’Egitto ma non hanno fatto i conti con gli inglesi, poco inclini a lasciare quelle terre agli odiati francesi.
Il 15 luglio 1799 il ventottenne capitano francese Pierre-François Bouchard è nei pressi di Rashid, classicamente latinizzata nella più suggestiva Rosetta. Il giovane ufficiale ha il compito di restaurare un antico forte ottomano, ribattezzato dai francesi Fort Julien. Si tratta di una struttura ancora efficiente, indispensabile bastione strategicamente posizionato tra il Nilo e il vicino Mar Mediterraneo.
Bouchard si mette subito all’opera e, non volendo deludere il suo generale, sollecita gli interventi di ristrutturazione della tozza fortificazione costruita nel XV secolo dal sultano mamelucco Al-Ashraf Abu Al-Nasr Qaitbay.
Mentre viene demolito un vecchio e malmesso muro, Bouchard nota tra le fenditure una sorta di lastra. Dopo averla fatta faticosamente estrarre, pesa più di settecento chili e opportunamente ripulita, si accorge subito di aver trovato qualcosa di importante.
Si tratta, infatti, di un grosso frammento di un’antica stele egizia.
D’accordo con il suo comandante, il generale Menou, decide di inviare quel prezioso reperto ad Alessandria d’Egitto per farlo analizzare da quegli esperti che il futuro imperatore ha voluto con sé nell’avventura in terra d’Egitto. Sono astronomi, geometri, chimici, poeti, artisti e orientalisti, un piccolo esercito di intellettuali a cui spetta il compito di “farsi rapire” da quell’antica e misteriosa civiltà.
Quelle persone intuiscono immediatamente la portata di quel ritrovamento tanto che il 15 settembre, a due mesi dalla scoperta, il giornale “Courrier de l’Egypte” enfaticamente scrive:
Ma il sogno di fare di quel pregiato cimelio uno dei bottini più preziosi della campagna egiziana da esporre a Parigi dura il tempo di un attimo.
A seguito della capitolazione francese per mano degli inglesi, gli antichi reperti nelle mani di Napoleone salpano alla volta di Londra, a bordo della Egyptienne.
Su quella nave, uno dei pezzi del congruo bottino di guerra anglosassone, c’è anche la Stele di Rosetta, come è stata da molti ribattezzata. Ad attenderla, scortata dal generale britannico Tomkins Turner, c’è il British Museum, la sede perfetta per esporre quella preziosa lastra che re Giorgio III ha deciso di regalare al popolo inglese.
I primi tentativi di decifrare la Stele di Rosetta
Il ritrovamento di quel frammento di lastra, senza dubbio una delle scoperte più importanti del secolo, scuote la comunità scientifica, finalmente certa di poter decrittare gli antichi geroglifici. Della stele vengono fatte alcune fedeli riproduzioni con cui provare a svelare l’arcano.
Se la traduzione dal greco non comporta grossi problemi, tanto che viene ultimata nel 1802 da Hubert Pascal Ameilhon, quella relativa alle altre due iscrizioni risulta decisamente più ardua, praticamente impossibile.
Tra gli studiosi che provano l’impresa c’è l’orientalista francese Antoine-Isaac Silvestre de Sacy. Apprezzato poliglotta, capace di tradurre svariate lingue, tra cui il siriaco, l’arabo, l’aramaico e, persino, il caldeo, de Sacy si mette subito all’opera, cimentandosi con il demotico e i geroglifici di quell’affascinante stele.
Ma è uno sforzo immane e, soprattutto, inutile. Quelle scritture rimangono per lui indecifrabili, tanto che alla fine, esausto e sconfitto, cede. «La speranza che avevo coltivato – scrive deluso in una lettera – non già di decifrare l’intera stele di Rosetta ma di leggerne parole a sufficienza da capire in che lingua è scritta, non si è realizzata.»
Come de Sacy sono in tanti a gettare la spugna. Le due scritture presenti sulla Stele di Rosetta permangono un mistero. In quella che sembra apparentemente una sfida impossibile, si lancia anche l’inglese Thomas Young. Medico di professione, Young è una personalità eclettica, con interessi che svariano dalla filosofia alla fisica passando anche per la linguistica.
Quel computo studioso esamina meticolosamente la Stele di Rosetta cercando attraverso il greco, il demotico non lo conosce, la chiave per decriptare i geroglifici.
E il risultato di quei suoi sforzi è parzialmente ripagato.
Young non solo riesce a indentificare alcuni caratteri riferiti a Tolomeo V Epifane, comprendendone anche in quale direzione debbano essere letti quegli antichi simboli egizi ma, soprattutto, percepisce come quella impenetrabile scrittura sia il risultato della combinazione di fonemi e ideogrammi.
Si tratta di un passo epocale. Fino alla intuizione del medico inglese, infatti, il mondo accademico riteneva i geroglifici esclusivamente dei simboli, la visiva rappresentazione di un oggetto, una qualità o, in taluni casi, di un’azione.
Per la definizione del mosaico manca ancora un fondamentale tassello, la pietra angolare della soluzione dell’enigma e i fili di quella complessa trama passano per la Francia e non poteva essere altrimenti.
Jean Francois Champollion e la chiave per decifrare la lingua degli dei
Jean-François Champollion nasce a Figeac, nel sud della Francia, il 23 dicembre del 1790. Fin da piccolo dimostra un’intelligenza vivida, un’irrefrenabile curiosità e, soprattutto, un’innata passione per le lingue.
All’età di undici anni, mentre i suoi coetanei si baloccano in infiniti giochi, Jean, spinto anche dal fratello maggiore Jacques, inizia a studiare prima il latino, poi il greco, quindi l’ebraico. A quelle prime lingue ne seguono altre quali l’avestico, il persiano, il sanscrito e persino il cinese. Nessun idioma, insomma, sembra per quel bambino avere segreti.
Della scoperta della Stele di Rosetta sa già molto ma desidera approfondire il suo studio, certo che la soluzione dell’enigma che arrovella invano studiosi di ogni risma sia a portata di mano e si trovi nella conoscenza del demotico, lingua ignota alla quasi totalità degli studiosi.
Nel 1804 vede una riproduzione della stele a casa di un amico di suo fratello e l’amore per quella preziosa lastra sboccia definitivamente.
Iniziano per Champollion anni di “studio matto e disperatissimo” finalizzati solo a un unico risultato: decifrare i geroglifici. Per far questo si mette a studiare forsennatamente il copto, la lingua che discende dall’antico demotico, la chiave, a suo avviso, per aprire la porta dei geroglifici.
A proposito dello studio di quella ennesima lingua così scrive in una lettera al fratello:
Infinite letture, la conoscenza acquisita del copto, l’incrocio tra vari testi antichi e principalmente un’ennesima scoperta, rendono l’obiettivo di decifrare i geroglifici davvero possibile.
Nel 1815 sull’isola nilota di Philae, a valle della diga di Assuan, vengono rinvenuti due piccoli obelischi entrambi con delle iscrizioni in greco e in geroglifico, il cui contenuto viene rapidamente diffuso e messo a disposizione degli studiosi.
Tra questi c’è ovviamente Jean-François Champollion che dall’analisi di quel duplice testo, da cui emergono i nomi del faraone, Tolomeo Evergete II e della consorte Cleopatra III, trae ulteriori conferme a precedenti ipotesi, avanzate studiando la Stele di Rosetta.
I geroglifici non sono dei pittogrammi o degli ideogrammi ma dei segni grafici che in un testo assumono un valore sia simbolico che fonetico e nella stele più celebre rappresentano i suoni in demotico. Un sistema misto, ecco cosa sono i geroglifici ed è questa la geniale soluzione trovata da Champollion.
Divenuto, oramai, un’autorità in materia, Champollion comincia a mettere a confronto il copto che conosce perfettamente con l’antico demotico, ricavandone utilissimi elementi che gli permettono di decodificare moltissime parole dell’antica lingua egizia che in taluni casi sono identiche al copto, in altri molto simili, come nel caso della parola giustizia, che in demotico si scrive “me” e in copto “maat”.
Il 14 settembre 1822, Champollion, certo oramai di aver risolto l’enigma, raggiunge di corsa la casa del fratello Jaques e, irrompendo trafelato per la lunga corsa, esclama trionfante «Je tiens mon affair!»
Le cronache narrano che dopo quell’annuncio, vuoi per l’importanza del momento e lo sforzo fisico compiuto, Champollion svenga ma è un malore momentaneo.
Pochi giorni dopo si mette alla stesura della “Lettre à M. Dacier relative à l’alphabet des hiéroglyphes phonétiques”.
Si tratta della comunicazione scientifica, all’epoca erano queste le modalità, della sua sensazionale scoperta che assumerà la forma della tavola di corrispondenza tra i segni delle scritture in geroglifico, demotico e greco, il suo lasciapassare per l’eternità che presenterà, giustamente compiaciuto, agli attoniti membri dell’Académie des inscriptions et belles-lettres di Parigi.
A proposito dell’importanza della scoperta della Stele di Rosette, l’egittologo John Ray ha detto: