Fatti della Storia

Itavia, la compagnia aerea distrutta dalle menzogne sulla strage di Ustica

Itavia, l'aereo della strage di Ustica

La strage di Ustica, in quel maledetto 27 giugno 1980, stroncò nel tempo di un attimo la vita di ottantuno persone, vittime innocenti in attesa di una verità che la giustizia tarda ancora a pronunciare definitivamente. Ma nelle pieghe di quell’indicibile, inaccettabile orrore si cela anche il dramma dell’Itavia, la compagnia aerea proprietaria del velivolo esploso in quell’ultimo venerdì di giugno.

Questo è il racconto di quella compagnia in cui lavoravano mille persone, portata alla rovina da atroci, vergognose menzogne.

Dall’aeroporto dell’Urbe ai cieli italiani

La storia della compagnia Itavia ha una precisa data di nascita: 13 ottobre 1958. Quel giorno viene fondata la Società di Navigazione Aerea Itavia.

Azionisti della neonata compagnia che sceglie come base operativa il piccolo aeroporto dell’Urbe, l’aeroscalo capitolino inaugurato da Mussolini il 21 aprile 1928, sono Luigi Petrignani, Maria Donati e Carlo Mancini; si tratta di tre imprenditori che in quell’anno segnato dall’entrata in vigore del Trattato di Roma ma anche dalla morte, il 9 ottobre nella dimora di Castel Gandolfo, di Pio XII, hanno l’ambizione di solcare i cieli italiani.

Primo volo inaugurale Itavia, giugno 1960 (Public Domain/Wikipedia)
Primo volo inaugurale Itavia, giugno 1960 (Public Domain/Wikipedia)

E poco dopo il desiderio di quei pioneristici visionari si trasforma in realtà.
Non passa neppure un anno quando l’azzurrità dei cieli italiani viene tracciata dal primo areo dell’Itavia; si tratta di un bimotore progettato dall’ingegnere Ronald Eric Bishop e prodotto dall’azienda britannica de Havilland, capace di raggiungere la velocità massima di 378 km/h. Ma sulla compagnia aerea si addensano presto nuvole grigie che sembrano poter bloccare sul nascere un sogno di viaggi e nuvole.

Isola dell’Elba, 14 ottobre 1960. Sono le 15.50 quando un aereo Itavia, decollato dall’aeroporto romano dell’Urbe poche decine di minuti prima, si schianta sulle glabre rocce del monte Tabella, una delle tante vette di quell’isola che per un breve periodo ebbe come re addirittura Napoleone Bonaparte.

L’impatto dell’aereo che poco dopo sarebbe dovuto atterrare a Genova con la brulla montagna è devastante e non lascia scampo ai sette passeggeri e ai quattro componenti dell’equipaggio.

Quel tragico incidente, le polemiche a esso seguite, paiono metter la parola fine sull’Itavia; ma non sarà così. Da quella tragedia le donne e gli uomini dell’Itavia si rialzano.

Trascorrono solo due anni dall’incidente dell’Elba, quando l’Itavia torna a volare nei cieli italiani. Lo fa con altri aerei, quelli della statunitense Douglas, con un nuovo nome, quello di Aerolinee Itavia e con un diverso scalo operativo, quello romano di Ciampino. Il sogno di librare nell’aria continua.

L’avvento in Itavia di Aldo Davanzali

Gli anni Sessanta, seppur iniziati nel modo più tragico, sono per l’Itavia forieri di grandi e importanti novità, specie sul fronte societario. Nel 1961 il gruppo societario vede l’ingresso del principe Giovanni Battista Caracciolo. Di nobile lignaggio, omonimo del più celebre Giovanni Battista, detto il Battistello, pittore caravaggesco che si affermò nella Napoli della prima metà del Seicento, Giovanni Battista Caracciolo entra nel corpo societario dell’Itavia intravedendone gli importanti sviluppi in un settore, quello del trasporto aereo, in costante crescita.

Ma il fato si insinua ancora fra le nuvole di cieli che per l’Itavia, nonostante tutto, non diventano mai completamente tersi.

Monte Serra Alta, 30 marzo 1963. Sono le 18.36 quando il pilota del Douglas DC-3, decollato poco prima dall’aeroporto di Pescara e diretto a quello di Ciampino, a causa del forte maltempo in atto e convinto di essere in prossimità della capitale, inizia a scendere di quota. Ma le luci che vede non sono quelle della pista d’atterraggio dello scalo romano, bensì quelle di alcune abitazioni private. L’impatto del DC-3 contro il crinale della montagna, urtato con una delle ali, è violentissimo e non lascia scampo alle undici persone a bordo, di cui otto passeggeri e tre membri dell’equipaggio.

Il relitto del volo Itavia 703 precipitato sul Monte Serra (Public Domain/Wikipedia)
Il relitto del volo Itavia 703 precipitato sul Monte Serra (Public Domain/Wikipedia)

Ancora una volta una tragedia sembra pregiudicare la giovane esistenza dell’Itavia.
L’inevitabile sospensione della licenza alla compagnia aerea provoca un vero e proprio terremoto societario. Nell’aprile del 1965 il principe Caracciolo lascia il gruppo e per Itavia il fallimento appare sicuro. Ma a salvare la compagnia sono dei nuovi ingressi societari, quello della famiglia Tudini e, soprattutto, dell’avvocato Aldo Davanzali.

Nato a Sirolo, in provincia d’Ancona, il 26 gennaio 1923, esperto di Diritto della Navigazione, Davanzali è tra i fondatori della “Cesare Davanzali & Company” società di Ancona impegnata in lavori edili e portuali, oltre che nell’assistenza alle navi e nei salvataggi marittimi.

L’ingresso in Itavia di Davanzali porta nuova linfa ma soprattutto rinnovato entusiasmo. La compagnia in poco tempo aumenta il numero delle tratte servite. Da nord a sud sono diverse le città collegate dagli aerei con la livrea biancorossa. Roma, ovviamente, e, poi, Pescara, Bologna, Ancona, Napoli, Milano, Forlì, Catania, Palermo ma anche tratte internazionali quali Ginevra, Basilea e la greca Corfù.
Il successo di Itavia è sotto gli occhi di tutti, tanto che nel 1974, a soli nove anni dal suo ingresso nella compagnia, Aldo Davanzali viene insignito dal presidente della Repubblica Giovanni Leone del cavalierato del lavoro con la seguente motivazione:

«L’Itavia che ha oggi oltre 850 dipendenti, esercisce con moderni aviogetti una rete che copre l’intero territorio nazionale ed è la più importante compagnia aerea italiana a capitale privato.»

La crescita dell’Itavia prosegue anche negli anni successivi nonostante gli effetti nefasti della crisi petrolifera che interessa tutto il comparto dei trasporti a ogni latitudine del globo.

Aereo della flotta Itavia del 1980 (Public Domain/Wikipedia)
Aereo della flotta Itavia del 1980 (Public Domain/Wikipedia)

Nel 1976, la migliore annata di sempre per l’Itavia,  i dati economici sono più che confortanti ma a entusiasmare sono in particolare i numeri relativi ai passeggeri, passati dai 30.000 del 1969 agli oltre 900.000 del 1976; insomma l’Itavia è una compagnia sempre più autorevole, capace di garantire più di 13.000 voli complessivi in quell’indimenticabile anno.

Ma, ancora una volta, la tragedia è a poche miglia e si cela dietro il profilo di un aereo.

Quella maledetta notte del 27 giugno 1980

Bologna, aeroporto Guglielmo Marconi, 27 giugno 1980. Sono le 20.08 quando finalmente, dopo quasi due ore dall’orario prestabilito, il DC-9 dell’Itavia decolla, destinazione Palermo Punta Raisi, dove è previsto che arrivi alle 21.13.

Il motivo del notevole rinvio è il forte ritardo che l’aeromobile ha accumulato nei precedenti viaggi ma anche un incipiente e forte temporale che si abbatte sulla città felsinea. Ora, però, nulla sembra impedire il decollo, anche perché le condizioni meteo sono in fase di miglioramento. Quando il DC-9 inizia a rullare sulla pista bolognese, a bordo il disappunto per il ritardo si stempera subito, lasciando spazio a un clima di generale serenità.

Rotta del DC9 dell'Itavia nella notte del 27 giugno 1980 (foto: Maurizio Carvigno)
Rotta del DC9 dell’Itavia nella notte del 27 giugno 1980 (foto: Maurizio Carvigno)

D’altra parte per molti dei settantasette passeggeri, tra cui diversi minori, c’è un’estate da vivere, la prima di quel penultimo decennio del Novecento, una stagione scandita da canzoni quali Una giornata uggiosa di Lucio Battisti, Su di noi di Pupo o la tenerissima l’Ape Maia va, la sigla cantata da Katia Svizzero che ogni bambino conosce a memoria, anche su quell’aereo.

Il DC-9 vola tranquillo, raggiunge settemila metri d’altezza, toccando gli 800 km/h, sospeso a metà tra l’azzurro del mar Tirreno e quello di un cielo che tra poco si tingerà di notte. Poco più di un’ora di viaggio, un tempo piccolo per i settantasette passeggeri, da trascorrere leggendo qualche pagina di un libro o sfogliando un giornale, magari il Corriere della Sera che quel 27 giugno, a pagina 10, dedica un ampio reportage alla passione degli italiani per il volo, un impegno che coinvolge ben 9.000 connazionali, titolari del brevetto per pilotare aerei da turismo o, comunque, «appartenenti a quel settore del trasporto genericamente definito dell’aviazione generale.»

I più, però, quando l’arrivo nel capoluogo siciliano è questione ormai di minuti, scrutano attraverso il contorno circolare di un piccolo oblò il profilo dell’isola di Ponza, cullati dalle parole del comandante Domenico Gatti che alle 20.56 annuncia che l’arrivo è stimato in circa trenta minuti e che il tempo su Palermo è buono con una temperatura di 22 gradi e un leggero vento.

Ma a Palermo quell’aereo partito da Bologna con notevole ritardo non atterrerà mai. Alle 20.59 di quel maledetto 27 giugno, il DC-9 dell’Itavia semplicemente sparisce dai cieli e con lui la vita di ottantuno persone.

Il presunto coinvolgimento di Itavia nella strage di Ustica: l’ipotesi del cedimento strutturale

Sono trascorse poche ore dal disastro aereo sul cielo di Ustica che dalle profondità del mare dove si è inabissato il DC-9 emerge una prima versione dei fatti, quella del cedimento strutturale.

La morte dei settantasette passeggeri e dei quattro membri dell’equipaggio, secondo una prima e decisamente sommaria ricostruzione, è da ricollegare solamente alla scarsa manutenzione dell’aeromobile, allo scarso rispetto delle elementari regole di sicurezza, motivazioni più che legittime per spiegare il collasso strutturale dell’aereo in volo.

Il DC9 dell'Itavia nel Museo della Memoria di Ustica (foto: Maurizio Carvigno)
Il DC9 dell’Itavia nel Museo della Memoria di Ustica (foto: Maurizio Carvigno)

E’ l’ipotesi più semplice, la più comoda e, senza dubbio, quella più indolore, specie rispetto a quelle che rimandano a una bomba o, addirittura, a un missile come causa dell’esplosione dell’aereo. La spiegazione del cedimento strutturale trova spazio su diversi quotidiani italiani, in particolare, sui romani “Il Messaggero” e “Il Tempo”.

Quest’ultimo, nell’immediatezza dei fatti,  intervista un anonimo ufficiale dell’Aeronautica militare che dopo aver negato con determinazione la contemporanea presenza  la sera del 27 giugno nei cieli sopra Ustica di esercitazioni militari, afferma come «il distacco improvviso di un’ala, di un alettone meglio, l’imperfetta tenuta di un oblò possono aver determinato un’improvvisa depressurizzazione del velivolo.»

Ma non tutti i quotidiani sposano la spiegazione del cedimento. Non il “Corriere della Sera” che già dal 30 giugno con un articolo a firma di Andrea Purgatori che alla strage di Ustica dedicherà buona parte della sua attività professionale, non scarta l’ipotesi della collisione, da inserire in uno scenario aereo nel quale involontariamente si trova a volare il DC-9.

Ma sulle pagine dei media, ad avvalorare la tesi del cedimento strutturale, in quel lembo di fine giugno, iniziano ad affiorare anche le altre tragedie dell’aria che hanno per protagonista l’Itavia.

Si narra dei disastri del 1960 e del 1963 ma anche dell’incidente del primo giorno del 1974, quando un Fokker, decollato da Cagliari, si schianta al momento di atterrare su una delle piste dello scalo torinese di Caselle, determinando la morte di 38 persone. Non solo, la stampa dà risalto anche all’incidente che un anno dopo, per fortuna senza morti, si verifica all’aeroporto di Orio al Serio e che vede coinvolto nuovamente un Fokker della compagnia con la livrea biancorossa.

Per la cronaca, comunque, non solo l’Itavia negli anni precedenti a Ustica è rimasta coinvolta in fatti drammatici. La stessa compagnia di bandiera, l’Alitalia, è rimasta implicata in due disastri aerei. Il primo risale al 5 maggio 1972. Nello stesso giorno, un secolo e mezzo circa prima, in cui Napoleone muore nella sperduta isola di sant’Elena, un DC-8 dell’Alitalia si schianta contro la Montagna Longa, tra Carini e Cinisi, pochi minuti prima di atterrare nello scalo palermitano di Punta Raisi. Quel giorno a morire sono 115 persone, tra passeggeri e membri dell’equipaggio.

Il DC9 dell'Itavia nel Museo della Memoria di Ustica (foto: Maurizio Carvigno)
Il DC9 dell’Itavia nel Museo della Memoria di Ustica (foto: Maurizio Carvigno)

L’altra tragedia dell’aria è temporalmente più vicina a quella di Ustica ed è datata 23 dicembre 1978. Gli echi del dramma di Aldo Moro non sono ancora del tutto spenti quando un nuovo dramma scuote il Paese. Alle 0.38 dell’antivigilia di Natale, per un errore del pilota, un DC-9 dell’Alitalia, proveniente da Roma e diretto a Palermo, si inabissa nel mar Tirreno, quando manca una manciata di minuti all’atterraggio. L’impatto con le gelide acque è fatale per 108 persone dei complessivi 129 presenti a bordo.

Due tragedie, dunque, che però non determinano, come è giusto che sia, nonostante nel secondo caso l’attribuzione della colpa risulti palese, effetti per la compagnia di bandiera. Al contrario dell’Itavia. Oltre al ferale computo degli incidenti, nelle ore immediatamente successive a Ustica, in un disumano vortice mediatico, emergono anche i conti in rosso dell’Itavia e le ipoteche gravanti su alcuni dei veicoli.

Quello che i media e non solo danno in pasto a una fagocitante opinione pubblica è il resoconto di una compagnia, quella privata dell’Itavia, segnata, a loro dire, da mala gestione, errori societari, un evidente indebitamento, una scarsa cura dei velivoli e mancati investimenti. Un quadro pesantemente indiziario che pur privo di vere e proprie prove è più che sufficiente per accelerare la distruzione dell’Itavia.

Dopo la tragedia della strage di Ustica la strenua resistenza di Aldo Davanzali

Sono passati pochi giorni dalla tragedia del DC-9, quando Andrea Purgatori scrive sulle pagine del Corriere della Sera un nuovo articolo che già dall’icastico titolo dice moltissimo: “Innocenti pilota e compagnia nella sciagura del Dc-9 Itavia”.

Nel pezzo Purgatori smonta le cosiddette prove alla base dell’ipotesi del cedimento strutturale, dimostrando la loro totale inconsistenza. Riguardo alla questione delle scarse manutenzioni sull’aereo, uno degli argomenti preferiti degli accusatori dell’Itavia, Purgatori scrive come queste «erano state fatte tutte secondo i tempi e i modi previsti dal RAI (registro aeronautico italiano).»

Insomma, meno di un mese dopo la tragedia l’ipotesi regina, quella del cedimento strutturale, perde fatalmente quota a favore di altre ipotesi e, in particolare, di quella che sosteneva come il DC-9, la sera del 27 giugno, non viaggiasse solo ma avesse sotto pancia un altro aereo, il destinatario del ferale missile, una teoria da war games che, però, trova più di una conferma, a partire dal ritrovamento dei resti di un caccia militare.

Il DC9 dell'Itavia nel Museo della Memoria di Ustica (foto: Maurizio Carvigno)
Il DC9 dell’Itavia nel Museo della Memoria di Ustica (foto: Maurizio Carvigno)

Timpa delle Megare, monti della Sila, Calabria, 18 luglio 1980. Sono le 11 circa di un caldo mattino, quando un gruppo di abitanti di Castelsilano, piccolo comune del crotonese, vede, o così almeno sostiene nelle successive dichiarazioni rese agli inquirenti, prima un aereo volare a bassa quota e, poi, sparire nella fitta boscaglia sulla Sila seguito da un forte boato.

Le successive indagini in loco portano alla scoperta dei resti di un Mig libico e del cadavere di un pilota della medesima nazionalità del caccia militare. Uno dei medici legali incaricato di svolgere l’autopsia sul corpo del pilota scriverà di averlo trovato in un evidente stato di decomposizione, circostanza incompatibile con una recentissima morte ma, piuttosto, con un decesso avvenuto diversi giorni prima, quindici, se non, addirittura venti, insomma più o meno intorno al 27 giugno.
Sul ritrovamento del Mig e del cadavere del pilota undici anni dopo Andrea Purgatori scrive parole lapidarie sulla prima pagina del Corriere della Sera:

«A sorpresa, dalle registrazioni telefoniche della notte della strage di Ustica, ecco che affiora il primo vero legame tra l’esplosione del DC9 e il mistero del Mig 23 libico precipitato sulla Sila. Il giudice istruttore Rosario Priore e il Pm Giovanni Salvi hanno interrogato un ufficiale dei carabinieri che a mezzanotte del 27 giugno 1980 fece chiamare dalla torre di controllo dell’aeroporto di Crotone il centro dell’Aeronautica militare di Martinafranca per avere “particolarità” “informazioni” sul DC9.»

I molti dubbi che affiorano sulla vicenda di Ustica, la fragilità dell’ipotesi del cedimento strutturale non bastano, tuttavia, a spostare il tiro sull’Itavia, che, per chi conta, rimane ancora l’unica responsabile del disastro aereo.

Il 10 dicembre il ministro dei Trasporti Rino Formica firma un decreto con cui trasferisce all’Alitalia e all’Alisarda sino al 31 marzo i principali collegamenti dell’Itavia.

Si tratta di un provvedimento durissimo con conseguente economiche esiziali per una società che ha già versa in difficoltà contabili, dovute al crollo dei passeggeri nei mesi successivi al disastro di Ustica, frutto di una campagna stampa inaccettabile che mette la sola compagnia sul banco degli imputati.

Il DC9 dell'Itavia nel Museo della Memoria di Ustica (foto: Maurizio Carvigno)
Il DC9 dell’Itavia nel Museo della Memoria di Ustica (foto: Maurizio Carvigno)

La situazione economica, infatti, dopo il 27 giugno è letteralmente precipitata, con ricadute che interessano i quasi mille dipendenti a cui l’Itavia non è più in grado di pagare gli stipendi di ottobre e novembre.  Il rischio del fallimento, anche per il blocco delle linee di credito da parte delle banche e di aiuti statali che pur richiesti non arrivano, è dietro l’angolo.

La reazione della proprietà a quella che ritiene una colossale ingiustizia non si fa attendere. Il 16 dicembre, a sei giorni da quel decreto capestro, Davanzali scrive una lettera al ministro in cui denuncia come il suo dicastero abbia preso una decisione così ferale per la vita stessa dell’Itavia e dei suoi dipendenti, nonostante «sia ormai comprovata l’assenza di qualsiasi responsabilità da parte della compagnia unitamente alla certezza della distruzione ad opera di un missile, di un aereo che percorreva in perfette condizioni meteorologiche e di crociera, un’aerovia riservata dallo Stato italiano all’aviazione civile.»

Una lettera dal contenuto esplosivo ma che, purtroppo, non sortisce alcun effetto positivo. Anzi con due successivi decreti, datati 16 dicembre 1980 e 23 gennaio 1981, l’Enac, Ente Nazionale per l’Aviazione Civile, dichiara decaduti i servizi di linea, provvedendo contestualmente alla risoluzione delle convenzioni esistenti.
Con gli apparecchi obbligatoriamente ricoverati negli hangar per la compagnia aerea di Davanzali la crisi è dietro l’angolo e si materializza pochi mesi dopo.
Il 14 aprile 1981 l’Itavia venne dichiarata insolvente. Il successivo 31 luglio il Ministero dell’industria, di concerto con quello del Tesoro, pone la società in amministrazione straordinaria.

Così, in quell’ultimo giorno di luglio caldissimo si conclude la storia dell’Itavia e nel peggiore dei modi. Quel sogno immaginato il 14 ottobre di ventitré anni prima si è definitamente infranto come il Dc-9 sopra i cieli di Ustica quella sera d’estate del 1980.

E ha il sapore della beffa la relazione della commissione d’inchiesta del Ministero dei Trasporti che, il 16 marzo 1982, conclude che non è possibile stabilire se sia stato un missile o una bomba a distruggere il Dc-9 ma, di certo, quella strage non è imputabile a un cedimento strutturale dell’aereo. Una verità incontrovertibile ma che arriva fuori tempo massimo, quando i giochi per la compagnia di Davanzali si sono drammaticamente e colpevolmente chiusi.

Solo nel 2018, a distanza di trentotto anni da quei tragici fatti, l’onorabilità dell’Itavia sarà, seppur con molto, colpevole ritardo, finalmente riconosciuta. La Corte di Cassazione Civile con una sentenza adamantina sostiene come a provocare il disastro aereo non sia stato un cedimento strutturale bensì un missile, condannando i ministeri delle Infrastrutture e della Difesa al pagamento di un risarcimento misurabile, per la sola caduta del DC-9, in 265 milioni di euro.

Una sentenza shock a cui fa seguito, due anni dopo, quella della Corte d’Appello di Roma, sempre in sede civile che quantifica un ulteriore maxi risarcimento nell’ordine di 330 milioni di euro per il dissesto finanziario dell’Itavia, seguito alle decisioni ministeriali prese in quel fatale 1980, da versare alle due figlie di Aldo Davanzali, morto nel 2005, Luisa e Tiziana detentrici del 52% delle azioni della compagnia, in amministrazione controllata sin dai tempi della strage.

Ad Andrea Purgatori, il 2 settembre 1999, Aldo Davanzali, nel corso di un’intervista per il Corriere della Sera, a proposito di quel sogno chiamato Itavia, capace di sfidare un monopolio, aveva detto:

«Eravamo una realtà unica; piloti, assistenti di volo, impiegati, direzione, tutti uniti a cercare di fare il meglio per il Paese. Poi è finita così… no, anzi: per fortuna, adesso posso dire che non è ancora finita.»

Questo articolo è dedicato ad Andrea Purgatori senza il cui fondamentale contributo la strage di Ustica sarebbe stata derubricata soltanto a un “altro fatale” incidente.

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