Il 20 aprile 1814 Napoleone si congeda dalla sua Guardia imperiale, da quegli uomini che lo avevano seguito in campo al mondo, con un discorso intenso, uno dei suoi più intimi e veri di tutta la sua vita.
Quel giorno, mentre tutto sta inesorabilmente crollando, Napoleone destina ai suoi uomini per i quali, prima ancora che imperatore, è il loro generale, poche sentite parole, un ringraziamento dovuto ai compagni di sempre.
La disfatta di Lipsia, il declino che precede la caduta di Napoleone
L’inizio della fine di Napoleone Bonaparte coincide con una data ben precisa, quella del 19 ottobre 1813, e un luogo specifico, Lipsia, la città della Sassonia, teatro da tre giorni di un’infinita battaglia, la più imponente fra tutte quelle combattute fino ad ora dal generale corso.
L’alba è appena sorta l’alba nel cielo di Lipsia, Napoleone cammina solo lungo i viali che marginano i confini della locanda dove dimora dall’inizio di quel conflitto campale.
Sa che la battaglia è inevitabilmente persa, il suo esercito non ha speranze nonostante l’impegno profuso dai suoi uomini sia stato assoluto. Troppo netto il divario fra le forze in campo, una differenza che neppure il suo genio militare e l’ardore dei suoi uomini può colmare.
Non rimane che la resa anche se qualcuno vicino a Napoleone gli suggerisce di mettere a fuoco la città, ma lui è un uomo di armi, non di inutili vendette, per questo Lipsia non sarà incendiata, tantomeno distrutta.
La ritirata è rapida, dolorosa ma non indegna. L’umiliazione non appartiene al vocabolario di Napoleone che nel lungo viaggio di ritorno verso la Francia è capace ancora di un sussulto, la vittoria sulle truppe bavaresi, il 30 ottobre 1813.
Ma quel trionfo ha un sapore amarissimo. Napoleone è teso, preoccupato. I pochi sonni che riesce a fare all’indomani della disfatta di Lipsia sono brevi, agitati, funestati da incubi che non smettono neppure al risveglio. Immagina che i suoi nemici possano, di lì a breve, invadere la Francia, mettere finire al suo impero, soggiogare il suo amato popolo.
Ed è quest’ultima ipotesi ad angustiarlo di più ma come confida a chi gli sta accanto «niente è perduto, finché conservo tutta la mia energia.»
Ma anche la sua proverbiale vitalità sta terminando e il rientro in Francia sarà solo lo stanco prologo di una fine inesorabile.
Un’eroica, disperata resistenza
A Parigi, dopo la disfatta in terra tedesca, sono in molti, specie tra i politici, a voltargli le spalle. Improvvisamente Napoleone non è più l’imperatore dei francesi ma un sanguinario dittatore che ha condotto il suo popolo alla catastrofe.
L’imperatore è sempre più isolato, tradito, abbandonato, persino dalle persone più care, come Gioacchino Murat che, nell’estremo tentativo di salvare il suo effimero regno, si accorda con i nemici.
Gli incubi sognati nelle notti troppo lunghe che hanno scandito il rientro in patria dalle gelide distese germaniche, lasciano il passo alla peggiore delle realtà.
Il giorno di Natale, di quel fatale 1813, gli avversari di Napoleone valicano i confini francesi, minacciando molte importanti città. Gli austriaci entrano a Digione, i russi a Toul ma il tempo della definitiva resa non è ancora giunto.
Il 23 gennaio 1814 Napoleone, lasciata Parigi nelle mani del fidato fratello Giuseppe, nominato luogotenente generale dell’Impero, saluta la moglie e l’amato figlio che non rivedrà più.
Rimesso in piedi l’esercito, composto dai suoi uomini più fidati, in buona parte provenienti dalle fila della Guardia imperiale che non lo ha mai tradito, parte al fronte con l’unico obiettivo di cacciare gli invasori.
L’impresa è difficile, anche perché le forze che riesce a mettere in campo sono poche rispetto a quelle avversarie. Ma Napoleone ci crede, è conscio come nulla sia ancora perduto, tanto da incitare i suoi soldati, con una frase rimasta celebre: «50.000 uomini e me, fanno 150.000.»
Seguono due mesi di eroiche battaglie, nonostante la disparità tra le forze. Sul campo Napoleone ritrova l’entusiasmo dei giorni migliori, perfetto ricostituente per i suoi uomini.
I francesi si battono bene, la campagna militare è segnata da importanti successi, ma la superiorità del nemico è evidente e con il passare dei giorni e con l’inevitabile allargamento del fronte di guerra, la sconfitta appare sempre più vicina.
Da metà marzo in poi la situazione precipita. Al fronte giunge la peggiore delle notizie possibili: Parigi è caduta in mano ai nemici. Napoleone si lacera al pensiero di come la capitale della civiltà sia occupata dai barbari, per questo decide di cambiare strategia e provare a riconquistarla.
Nelle stesse ore in cui per le strade di Parigi occupate dai russi si odono i proclami realisti inneggianti a Luigi XVIII, il fratello del decapitato sovrano francese, Napoleone giunge nel castello di Fontainebleau.
Sul calendario la data è quella del 31 marzo 1814 e l’orologio della storia ha cominciato a battere i suoi ultimi, fatali rintocchi.
L’abdicazione, la caduta di Napoleone Bonaparte
L’incipiente entusiasmo che sulle prime aleggia nelle grandi sale di Fontainebleau scema rapidamente. I dispacci che Napoleone riceve da Parigi sono chiari e delineano un quadro drammatico. Nessuno ha voglia di resistere, tra i parigini serpeggia solo il timore che i russi possano mettere a fuoco la città.
Gli atavici dolori di stomaco, ora che la tensione è ai livelli massimi, tornano a farsi sentire. Napoleone è sempre più isolato, conta il numero di coloro che lo hanno tradito, nomi familiari, volti cari con cui ha condiviso gioie e dolori, trionfi e sconfitte.
Da Parigi arriva la notizia della sua destituzione ad opera del Senato. Inoltre nella nella capitale si è instaurato un governo provvisorio, presieduto dall’eterno Talleyrand, l’emblema del trasformismo, l’uomo per tutte le stagioni. Anche l’ultimo anelito di ottimismo si sperde in quella primavera incipiente e Napoleone decide di abdicare, è il 4 aprile 1814.
Queste le poche, storiche parole di un atto che non avrebbe mai voluto scrivere:
Ma quelle condizioni sono per i vincitori di Napoleone semplicemente inaccettabili.
L’ex imperatore di Francia non può pretendere nulla, tantomeno di abdicare a favore del figlio, che per soli due giorni sarà Napoleone II.
Per i suoi acerrimi nemici la dinastia dei Bonaparte deve ritenersi conclusa. Il futuro della Francia coinciderà con la restaurazione della monarchia borbonica.
L’oramai ex imperatore prova a resistere ma alla fine cede. Il 6 aprile firma un nuovo testo con il quale si impegna a «rinunciare al trono di Francia e d’Italia per sé e per i suoi eredi» una scelta inevitabile avendo compreso, come lui stesso scrive, di essere «l’unico ostacolo al ristabilimento della pace in Europa».
Per Napoleone si aprono le porte dell’esilio, edulcorato nella forma di un nuovo regno, quello dell’Elba. Ma prima di partire verso l’isola toscana, dove non si accontenterà, tuttavia, di un semplice ruolo di rappresentanza, c’è ancora tempo per salutare chi non lo ha mai tradito, seguendolo fedelmente su ogni campo di battaglia, combattendo lealmente al suo fianco.
Si tratta degli uomini della Guardia imperiale, l’unità militare di élite da lui stesso creata il 18 maggio 1804, rimodulando la vecchia Guardia consolare dell’epoca post-rivoluzionaria. È a loro, a quei soldati fidati, che vuole rivolgere l’ultimo saluto prima di partire per l’esilio.
La caduta di Napoleone: il commiato alla Guardia imperiale
Fontainebleau, 20 aprile 1814. L’alba è da poco spuntata, Napoleone è già in piedi da tempo, dopo l’ennesima notte insonne. Indossata l’uniforme, con gli stivali ben lucidi, esce dai suoi appartamenti e incontra lungo il tragitto i suoi nemici, quei militari che assaporano il gusto della vittoria ma non quello dell’umiliazione.
Sfilano ai suoi lati, mentre incede con passo sicuro, il russo Ciuvalov, l’austriaco Koller, l’inglese Campbell, il prussiano Walbourg-Truchsess. Li degna a malapena di uno sguardo, non è a loro, infatti, che vuole dedicare le sue ultime emozioni. Ogni anelito del suo essere è rivolto ai suoi uomini, schierati poco più avanti nelle loro perfette uniformi, tesi come mai, emozionati per un commiato che non vorrebbero mai ricevere.
Napoleone, dopo il presentatarm, saluta gli ufficiali poi scende i gradini dello scalone del castello. Lo fa con un incedere lento ma sicuro, fissa ogni particolare, vuole che tutto di quella giornata rimanga scolpito nella sua memoria, tanto, d’ora in poi, il tempo per ricordare non gli mancherà.
Il momento più toccante di quel 20 aprile lo prova nello stare in mezzo ai suoi soldati. Per un fatale attimo l’amarezza per l’abdicazione sembra svanire. Fra i suoi uomini torna soldato anche lui, come se tutti quegli anni non fossero mai, davvero, trascorsi.
Li guarda negli occhi e poi con voce ferma rivolge a loro il suo personalissimo saluto. Non ci sono fogli da leggere, non ha mai avuto una simile abitudine ma soltanto poche parole da pronunciare sperando che l’emozione non abbia il sopravvento:
Napoleone tornerà a combattere affianco a quegli uomini valorosi in un ultimo virgulto di orgoglio, nello spazio fisico compreso fra due isole, quella dell’Elba, da dove fuggirà per tentare l’impresa della vita e quella di Sant’Elena, l’ultimo avamposto della sua incredibile esistenza, lacerto di roccia spersa nell’oceano dove si spegnerà il 5 maggio 1821.