Fatti della Storia

L’omicidio di Giuseppe Di Vagno, il primo delitto politico fascista

Giuseppe Di Vagno, omicidio 1921

Il 26 settembre 1921, dopo una breve agonia, muore, nell’ospedale di Mola di Bari, il deputato socialista Giuseppe Di Vagno. Il giorno prima, alla fine di un comizio nella cittadina pugliese, era stato colpito da alcuni colpi di pistola.

A sparare, come poi dimostreranno le indagini, furono alcuni squadristi fascisti

L’omicidio di Giuseppe Di Vagno fu un delitto politico, il primo di una lunga serie, una striscia di sangue che segnerà drammaticamente il Ventennio fascista.

Giuseppe Di Vagno, un gigante buono a difesa degli ultimi

Giuseppe Di Vagno, che anni dopo il leader socialista Filippo Turati ribattezzerà il gigante buono per la sua notevole stazza e per la sua infinita bontà, nasce a Conversano, un paese in provincia di Bari.

Giuseppe Di Vagno
Giuseppe Di Vagno

La sua famiglia d’origine è composta da contadini ma non poveri, come molti al quel tempo, ma relativamente agiati, tanto da permettere al giovane Giuseppe, vista la sua predisposizione per lo studio, prima di conseguire la maturità classica presso il liceo di Conversano e, poi, la laurea in giurisprudenza, nientemeno che a Roma. 

Proprio gli anni trascorsi nella capitale formano e in modo decisivo il futuro deputato socialista.  Alla facoltà di Legge della Sapienza di Roma Giuseppe ha la possibilità di seguire le lezioni di validissimi docenti, il meglio del diritto italiano. Ma fra i professori dell’ateneo romano uno, più di tutti, lo colpisce, al punto da essere per lui non un semplice docente ma un vero e proprio maestro.

Si tratta di Enrico Ferri, titolare della cattedra di diritto penale, allievo del celebre criminologo Cesare Lombroso. Ferri è un avvocato di grido e un battagliero deputato socialista, un uomo che nelle aule dei tribunali, come dagli scranni della Camera dei Deputati, si batte contro le ingiustizie, i soprusi che colpiscono le classi più indifese, più povere della società.

Celebre, in tal senso, è la strenua opposizione che Ferri mette in atto il 7 giugno 1899 contro le leggi liberticide fortemente volute dall’allora primo ministro, il generale Pelloux. In quella circostanza il deputato socialista parla per ben cinque ore consecutive, argomentando il suo fermo rifiuto verso quel provvedimento legislativo, tenendo in scacco l’intera Camera con uno dei primissimi esempi di ostruzionismo parlamentare. Con un simile modello il giovane Giuseppe, nel quale già aveva germogliato il seme del socialismo, non poteva non essere affascinato dalla passione politica.

Conseguita la laurea Di Vagno inizia a intraprendere la professione forense ma non è quello che vuole e soprattutto non è a Roma che vuole spendere la sua azione.

Dopo essersi iscritto, nel 1914, al Partito socialista, Di Vagno decide di lasciare la capitale per tornare a Conversano, dove le questioni sociali, specie in ambito bracciantile, sono sempre attuali. Le prevaricazioni commesse dai padroni a carico dei contadini più poveri sono all’ordine del giorno e, talvolta, sfociano in violente proteste, come nel 1886, quando, addirittura, fu dato fuoco al municipio.

Nel 1914 Di Vagno viene eletto nelle liste socialiste per il consiglio provinciale di Bari ma lo scoppio della Prima guerra mondiale e il successivo ingresso dell’Italia nel conflitto, nel maggio del 1915, lo costringe, al pari di migliaia di giovani italiani, a lasciare tutto per partire per il fronte, dove, di fatto, non arriverà mai, essendo relegato in Sardegna a causa delle sue opinioni politiche.

Dopo la fine della Grande Guerra, Giuseppe Di Vagno inizia a collaborare con diversi giornali progressisti pugliesi come L’Oriente, Il Gazzettino di Puglia e Il Giornale del Sud, attività giornalistica che, al pari di quella politica, attira la pruriginosa attenzione delle forze dell’ordine, tanto che il suo nome finisce nel Casellario politico centrale.

Gaetano Salvemini
Gaetano Salvemini

Escluso dalle liste del partito socialista per le elezioni politiche del 1919, per l’adesione alle idee di Salvemini, una sorta di reietto per moltissimi socialisti, due anni dopo, Di Vagno viene candidato ed eletto nella tornata elettorale del maggio 1921, quando ottiene, nella circoscrizione di Bari-Foggia, ben 74.602 preferenze che gli spalancano le porte di Montecitorio. 

L’elezione a deputato e la nomina come segretario della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, non cambiano, tuttavia, l’impegno del politico barese a favore delle classi più deboli nella sua Puglia. 

Ma quell’impegno politico e sociale che lo porta in giro per la regione tra comizi e manifestazioni attira, inevitabilmente, le attenzioni dei fascisti locali che vedono il politico pugliese sempre più come una minaccia. 

Il 30 maggio 1921, alla fine di un comizio nella natia Conversano, Di Vagno viene coinvolto in una violenta azione promossa da alcuni fascisti provenienti dalla vicina Cerignola. L’aggressione provoca la morte del socialista Cosimo Conte, del fascista Ernesto Ingravalle e il ferimento di nove contadini. 

Di Vagno, pur impressionato da quel vile attentato, non arretra di un millimetro, nonostante il clima in Puglia e non solo, sia notevolmente peggiorato negli ultimi tempi. La sua presenza, là dove serve, è costante ma ai fascisti quel suo esporsi non piace, specie quando si tratta di mettersi al fianco dei contadini contro l’arroganza dei proprietari terrieri con i quali i fascisti, da tempo, hanno stretto una scellerata alleanza.

L’omicidio di Giuseppe Di Vagno: cronaca di un delitto fascista   

L’aggressione del 30 maggio nei confronti di Di Vagno non è un fatto isolato, ma solo la prima di una serie di altre azioni che proseguono nei giorni successivi ai fatti di Conversano e che si verificano anche a Casamassima, Noci e Putignano.

Aggressioni, intimidazioni che, però, non spaventano il deputato Di Vagno che il 25 settembre è a Mola di Bari per l’inaugurazione di una sezione locale del Partito socialista, nonostante l’amico e giornalista Antonio Bonito gli abbia, da alcuni giorni, sconsigliato di prendere parte a quell’appuntamento. 

Alcuni giorni prima, infatti, il 23 settembre, per l’esattezza, Bonito aveva incontrato Di Vagno a Foggia, cercando in tutti i modi di dissuaderlo, riferendogli di come fosse venuto a conoscenza da un suo informatore che una squadra di fascisti, capitanata da Domenico Farina, l’organizzatore dell’attentato dello scorso 30 maggio, avrebbe potuto compiere qualche azione violenta a Mola di Bari.

Di Vagno, commosso per l’interessamento dell’amico e compagno (Bonito è un dirigente socialista locale) decide, tuttavia, di non ascoltare quel prezioso consiglio e il 25 settembre è regolarmente nella cittadina pugliese, nonostante sia ben consapevole del livello che la violenza politica, specie di stampo fascista, ha raggiunto e non solo nella sua Puglia.

I numeri delle violenze compiute dai fascisti sono raccapriccianti e a poco è servito il patto di pacificazione firmato il 3 agosto da Mussolini, popolari, socialisti e rappresentanti della CGIL. Per i fascisti di provincia quell’accordo, semplicemente, non esiste. Di quello che si è deciso a Roma a loro non interessa nulla; patto o no, continueranno a usare le misure forti contro tutti coloro, socialisti e comunisti in primis, i loro nemici.

Di Vagno, in quel fatale 25 settembre, ha appena finito di parlare in piazza XX Settembre, quando in via Loreto viene raggiunto da alcuni colpi di pistola esplosi dallo studente Luigi Lorusso, uno dei nove fascisti presenti a Mola di Bari e provenienti proprio da Conversano, il paese di Di Vagno.

Il giorno dopo la notizia dell’aggressione è su molti giornali che descrivono le modalità di quel vile attentato, anche se glissano sul movente “fascista” dell’azione. Il “Corriere della Sera” ad esempio, riferisce che gli aggressori di Di Vagno, circa una ventina, «gli hanno sparato contro venti colpi di rivoltella e gli hanno lanciato anche una bomba.» Di quei venti spari solo tre colpiscono il deputato socialista, ma, uno in particolare, quello che trapassa l’intestino, risulta fatale.

Le condizioni di Di Vagno appaiono subito gravi, per questo viene trasportato presso il vicino ospedale, dove viene sottoposto immediatamente a una complessa operazione chirurgica ma invano. Il 26 settembre Di Vagno muore ma fa in tempo a vedere Giuseppe Di Vittorio, che con altri compagni socialisti, ha raggiunto l’ospedale di Mola per vedere il caro Peppino.

Ecco come il futuro segretario della Cgil, ricorda l’ultimo incontro con Di Vagno «il nostro Peppino giace, come un Ercole abbattuto, come un eroe vinto! È pallido ma sereno. Giace supino, con gli occhi vivi ed appassionati. Sul viso aperto si leggono chiaramente l’intimo tormento, gli atroci dolori che dilaniano il corpo insanguinato, avvelenato; ma non emette un lamento. Sembra voler combattere e vincere la morte, con la stessa tranquilla serenità con cui ha combattute e vinte le battaglie della vita. Vede me, Favia, De Silvestro, Palladino, Nardulli, Santoiemma ed altri ancora. Ci riconosce, ci saluta con lo sguardo dolce, ci rincora e fra gli atroci tormenti che macerano la sua carne, che disfanno rapidamente il suo corpo, trova la forza per sorridere lievemente. Ahimè! – fu l’ultimo che vedemmo fiorire su quelle labbra pronte al sorriso come per rendere manifesta l’infinita bontà dell’animo suo.» 

Un mese dopo, il 30 ottobre, al teatro Petruzzelli di Bari amici e compagni di Di Vagno, provenienti non solo dalla Puglia, lo ricordano in una solenne commemorazione che vede, tra gli altri, anche il professor Ferri al quale spetta il discorso più importante, interrotto, più volte, dagli applausi scroscianti dei presenti. 

Le indagini, gli arresti e la controversa vicenda giudiziaria

Contestualmente alle commemorazioni iniziano anche le prime indagini che si orientano, come inevitabile, sul movente politico. Per gli inquirenti Di Vagno è stata ammazzato per la sua azione politica, per questo esecutori e mandanti devono essere cercati in quell’ambiente.

Nel giro di pochi giorni molti dei presenti in quel drammatico 25 settembre vengono arrestati. Tra loro l’ex sottufficiale Angelo Alessandrelli e Tommaso Cassano, fermato mentre da Brindisi sta per salpare alla volta della Grecia. Poi è la volta di Luigi Lorusso, uno studente liceale, riconosciuto da un testimone come l’esecutore materiale.

I diversi arresti non placano le proteste del mondo socialista che, nell’ore immediate all’attentato aveva reagito indicendo una serie di scioperi. Per Di Vittorio, in particolare, quei nomi, pur importanti, non fanno realmente giustizia, visto che si tratta dei soli materiali esecutori e non dei mandanti che, a dire del sindacalista, devono essere ricercati da altre parti. Di Vittorio, nei giorni concitati che seguono l’omicidio, fa più volte il nome di Giuseppe Caradonna, come il mandante dell’omicidio di Di Vagno. 

Si tratta del fondatore dei Fasci di Cerignola, un forte e rispettato leader locale che, come ha scritto lo storico Mimmo Franzinelli, va fiero dei suoi reparti di cavalleria del Tavoliere, specializzati nella distruzione delle sedi sovversive. Caradonna, che in seguito ricoprirà vari ruoli, da luogotenente della Milizia a vicepresidente della Camera, nel settembre del 1921 è fresco di elezione alla Camera dei Deputati, ottenuta nei Blocchi Nazionali, con 133.414 voti, un bottino considerevole che, infatti, lo colloca al terzo posto nel collegio elettorale, dietro i liberali Salandra e Spada.

Ma le accuse di Di Vittorio nei confronti di Caradonna non sortiscono effetti. Il politico fascista, infatti, non viene mai formalmente accusato per l’omicidio del deputato Giuseppe Di Vagno.

L’istruttoria intanto va avanti e si conclude nel 1922, allorché la Sezione di Accusa di Trani ritiene Luigi Lorusso responsabile di omicidio volontario aggravato e rinvia a giudizio, con gravi prove di reità, gli imputati Antonio De Bellis, Angelo Berardi, Domenico Ippolito, Natale Pace, Angelo Alessandrelli, Vito Fanelli, Riccardo Lofano, Alfredo Mele e Francesco De Bellis. Contestualmente proscioglie molti altri imputati, sia per insufficienza di prove, come nel caso Nicola Lorusso e Domenico Centrone o per non aver commesso il fatto, circostanza che riguarda, tra gli altri, Tommaso Cassano e Ambrogio Aloisio.

Ma per i coinvolti nell’omicidio Di Vagno le porte del carcere non si aprono.

Nel dicembre del 1922 per i nove imputati arriva l’inattesa panacea dell’amnistia che riguarda, come recita il provvedimento, «tutti i delitti compiuti per fine nazionale». Ingiustizia è fatta.

Il 3 gennaio 1923 gli ex imputati, come si legge nella comunicazione del Questore comunica al Prefetto, rientrano a Conversano, accolti da una «calorosa e festosa accoglienza.» 

Con la caduta del fascismo si torna a parlare dell’omicidio Di Vagno con la conseguente riapertura del processo che, però, per legittima suspicione, viene spostato su volere della Corte di Cassazione, dalla Corte d’Assise di Bari, competente per territorio, a quella di Potenza.

Il 31 luglio 1947 il tribunale di Potenza condanna gli imputati a pene che vanno da un massimo di diciotto anni a un minimo di dieci, condanne decisamente lievi ma spiegabili, a detta dei giudici, sulla base della minore età di alcuni di loro, nonché del movente politico del delitto. 

La sentenza successiva della Corte di Cassazione fa ancora più rabbia tra i parenti, amici e compagni di Di Vagno. La suprema corte, infatti, esclude la volontà criminosa, sostenendo come l’omicidio avesse una natura preterintenzionale e non volontaria. A detta dei togati il delitto Di Vagno sarebbe stato il risultato, come venne scritto nella sentenza, dell’«esuberanza giovanile» del Lorusso e non l’atto finale di una premeditata azione volta a sopprimere la voce libera di un oppositore quale Di Vagno.

La preterintenzionalità riconosciuta dai giudici ha l’effetto di dichiarare estinto il reato, in base alla cosiddetta “amnistia Togliatti ”entrata in vigore il 22 giugno 1946. 

Ancora una volta, come nel 1922, per i responsabili dell’omicidio Di Vagno le porte del carcere non si aprono.

Sul quel primo delitto fascista scende per diversi anni il manto dell’oblio nonostante la forte valenza politica e storica di quel vile assassinio che si inserì perfettamente nel torbido clima di quegli anni, segnato da una recrudescenza della violenza politica che né le elezioni politiche, tantomeno il patto di pacificazione stilato fra alcuni partiti e fortemente voluto da Enrico De Nicola, Ivanoe Bonomi e da Benito Mussolini, seppur con motivazioni ben diverse, riuscì ad arrestare. E Giuseppe Di Vagno ne fu un drammatico e purtroppo non isolato esempio.

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