Il 28 luglio 1914, a un mese esatto dal duplice assassinio di Sarajevo, il vecchio imperatore Francesco Giuseppe dichiarava guerra alla Serbia. Quello che sulle prime si sperava potesse essere un conflitto regionale, l’ennesima riedizione delle guerre balcaniche, divenne, invece, per le responsabilità di altri stati, in primis la Germania del kaiser Guglielmo II, una guerra di dimensioni europee e poi mondiali.
Il 28 luglio 1914, con quella dichiarazione, venivano spalancate le porte dell’inferno, iniziava, così, la Prima Guerra mondiale.
La ridicola inchiesta sull’attentato di Sarajevo
La reazione di Vienna al duplice assassinio di Sarajevo, in cui perirono, per mano del nazionalista Gavrilo Princip, l’arciduca Francesco Ferdinando, l’erede al trono austroungarico e sua moglie Sofia, fu immediata e si materializzò in un’inchiesta ufficiale da parte dell’impero austriaco sul delitto.
Si trattò di un’indagine condotta in modo rapido e principalmente, superficiale, molto superficiale.
Ai più importanti dignitari imperiali, Francesco Giuseppe in testa, comprendere cosa fosse realmente accaduto, in quel tragico 28 giugno, importava davvero poco.
Gli esiti dell’inchiesta, portata avanti con una velocità disarmante e sospetta, furono, come ha scritto lo storico Luciano Canfora nel suo 1914 «tutti già preordinati, era una verità già conosciuta che veniva resa pubblica.»
Gli investigatori imperiali, seguendo un ordine prestabilito, giunsero a conclusioni affrettate, pregiudiziali, tese a dimostrare come, dietro le bombe lanciate da Princip, ci fosse solo e soltanto Belgrado. I serbi, dunque, erano i mandanti del duplice assassinio in terra bosniaca e, a supporto di ciò, gli austriaci produssero delle prove che stabilivano come il governo della Serbia non solo avesse fornito, tramite alcuni alti ufficiali, le bombe e le pistole agli attentatori ma li avesse anche adeguatamente addestrati al loro uso, garantendo, oltretutto, l’accesso indisturbato in terra austriaca.
Peccato che quelle prove, raccolte al termine di un’indagine raffazzonata e, soprattutto, faziosa, fossero poco convincenti, più indiziarie che probanti, ma a Vienna e a una parte dell’Europa, non interessava minimamente.
Quello che agli austriaci importava era possedere un valido e incontrovertibile pretesto per accusare la Serbia, un vicino scomodo che coltivava la crescente ambizione di diventare lo stato unificatore dei popoli slavi meridionali, un’aspirazione che, inevitabilmente, andava a scontrarsi con l’egemonia asburgica, faticosamente raggiunta nei Balcani.
L’occasione per punire, meglio ancora, schiacciare l’arroganza serba, era a portata di mano e non poteva assolutamente essere persa.
Fautori della guerra contro la Serbia erano il ministro degli Esteri austriaco von Berchtold e, soprattutto, il generale Conrad. Per l’alto ufficiale, famoso per un cinismo senza eguali, (anni prima aveva proposto di attaccare l’Italia subito dopo il disastroso terremoto di Messina del 1908, approfittando dello scompiglio politico e sociale che il sisma aveva determinato) farsi sfuggire la chance di una guerra contro la Serbia era un errore imperdonabile.
Nei giorni successivi all’attentato di Sarajevo era solito ripetere, come un mantra, che qualora l’impero non avesse approfittato di quella occasione, la monarchia sarebbe stata «esposta a nuove, continue richieste da parte degli slavi meridionali, dei cechi, dei russi, dei romeni e degli italiani.»
Se a Vienna dopo il 28 giugno per certi aspetti si rideva a Belgrado, invece, si tremava.
La reazione serba all’attentato fu, infatti, di vero e proprio panico, la sensazione prevalente fu quella di camminare su un filo sospeso su un vuoto incolmabile. Gli uomini del governo serbo sapevano bene che gli attentatori di Sarajevo si trovavano, fino a poche settimane prima di quel fatale 28 giugno, a Belgrado. Erano altresì consci di come si fossero procurati le armi e degli eventuali appoggi di qualche dirigente serbo ma, sapevano anche che con quell’attentato Belgrado non aveva nulla a che fare.
Ecco come Luciano Canfora spiega i motivi per cui il piccolo regno slavo non potesse essere il mandante del duplice assassinio:
Insomma per la Serbia l’attentato di Sarajevo era un macigno che cadeva improvviso con la quasi certezza di provocare danni incalcolabili. A Belgrado, già nelle prime ore successive al duplice omicidio, il clangore delle armi iniziò a udirsi e a incutere paura.
Insomma se Belgrado temeva la guerra Vienna, invece, l’agognava, certa di poter, in tal modo, sbarazzarsi finalmente dell’indesiderato e scomodo vicino.
Ma agli impazienti austriaci occorreva un pretesto per scatenare un conflitto, un casus belli, in sostanza, che, in poco tempo, assunse la forma di un ultimatum, un aut aut da consegnare alla Serbia, pena la guerra.
Il pretesto per la fatidica dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia
Il piano ordito a Vienna, la cui tempestività non fu tanto dettata dal dolore per l’uccisione dell’arciduca, (quella morte a corte fece felice più di qualcuno, visto che Francesco Ferdinando non era benvoluto, specie per le sue idee politiche e per il matrimonio morganatico) quanto dall’atavico desiderio di risolvere, una volta per tutte, la grana serba, era, ormai, un treno che rapido correva sui della diplomazia più bieca, con un’unica destinazione: la guerra.
Accantonata l’inchiesta, ora era la volta di stilare l’ultimatum, il casus belli tanto agognato per muovere guerra alla Serbia e schiacciare, una volta per tutte, l’odiato nemico.
La prima bozza del fatidico ultimatum, la miccia che farà deflagrare “la catastrofe originaria del XX secolo”, come la definì George F. Kennan, venne stilata il 14 luglio; cinque giorni dopo, il 19 luglio, l’ultimatum era bello e pronto, ma per la consegna definitiva alle autorità serbe occorreranno ancora dei giorni.
Vienna, infatti, voleva essere sicura che l’eventualità del conflitto, quello era il recondito scopo dell’ultimatum, fosse condivisa anche dalla Germania, una certezza che si concretizzò già nelle ore successive all’attentato, quando il kaiser Guglielmo II, incitò il governo austriaco alla soluzione bellica, esclamando, davanti a più di un testimone, come bisognasse «sistemare una volta per tutte i serbi e subito.»
Quelle parole assunsero una forma ufficiale il 6 luglio, quando da Berlino arrivò il desiderato placet. L’assegno in bianco, tanto atteso a Vienna, alla fine era stato staccato, la guerra era sempre più vicina.
Il 23 luglio l’ambasciatore austriaco a Belgrado, il barone Wladimir Giesl Freiherr von Gieslingen, consegnò al collega serbo il fatidico ultimatum.
Da quel momento in poi la clessidra della storia veniva inesorabilmente girata, la sabbia sarebbe finita alle ore 18.00 del 25 luglio, due giorni di tempo per decidere i destini di una nazione, per scrivere i contorni della Storia.
I dieci punti di un ultimatum inaccettabile
Il testo che l’ambasciatore serbo si trovò fra le mani, in quel caldo pomeriggio di quasi fine luglio, era quanto di più provocatorio e inaccettabile si potesse leggere. L’ultimatum confezionato a Vienna constava di dieci punti, un decalogo di impegni che Belgrado avrebbe dovuto sottoscrivere pena l’inevitabile conflitto.
Tra i vari punti c’era l’obbligo da parte delle autorità serbe di espellere dall’apparato militare e dalla pubblica amministrazione tutti gli ufficiali e i funzionari colpevoli di propaganda contro la monarchia austro-ungarica, i cui nomi, ingerenza non da poco, sarebbero stati indicati direttamente da Vienna.
Nel diktat si pretendeva anche lo scioglimento immediato della società Narodna Odbrana e di tutte quelle associazioni non gradite a Vienna, l’arresto del maggiore Voijslav Tankošić e di un funzionario serbo a nome Milan Ciganović, risultati, sulla base dell’inchiesta, coinvolti a vario titolo nell’attentato, ma anche l’eliminazione dai programmi scolastici di tutto ciò che potesse fomentare la propaganda contro l’impero austroungarico.
La risposta a quell’ordine confezionato dalla diplomazia viennese fu da parte serba, sostanzialmente, remissiva, nonostante quell’atto fosse stato giudicato da molti, in primis dal ministro degli Esteri inglese Grey come «il documento più duro che uno Stato abbia mai indirizzato ad un altro Stato.»
Dei dieci punti solo uno fu respinto dal governo serbo, quello relativo alla partecipazione dei funzionari austriaci all’inchiesta promossa dal governo serbo sui fatti di Sarajevo. Accettare quel vincolo era per i serbi impossibile, avrebbe significato, come ha scritto lo storico Gian Enrico Rusconi, nel suo 1914: attacco a occidente, un condizionamento, di fatto, della sovranità serba.
La risposta di Belgrado era quella che a Vienna si anelava. Ora non rimaneva che la guerra, la soluzione che i politici imperiali desideravano, a partite da Francesco Giuseppe, convinto, anche su pressione di Conrad, che la guerra avrebbe salvato l’instabile monarchia, ridando colore a un potere sbiadito.
Il governo serbo, respingendo, seppur per un solo punto, l’ultimatum austriaco, sapeva bene di aprire le porte a una possibile guerra ma, tuttavia, non si trattò di una decisione impulsiva. Prima di rispondere a Vienna, Belgrado si sincerò dell’assicurazione russa di un possibile appoggio nell’eventualità di un attacco austriaco.
28 luglio 1914, il punto di non ritorno: la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia
La risposta di Vienna a Belgrado non fu immediata. Trascorsero, infatti, tre giorni in cui, specie per mano inglese, si provò a evitare la guerra, magari organizzando una conferenza ad hoc, per mettere sul tavolo le varie posizioni ma quella proposta cadde nel vuoto.
A Vienna e soprattutto a Berlino, però, l’unica strada percorribile era solo una: la guerra.
Il 28 luglio, alle 12.00 in punto, da Vienna veniva telegrafata la dichiarazione di guerra alla Serbia, rea di «non aver risposto in maniera soddisfacente alla nota che gli era stata rimessa dal ministro d’Austria-Ungheria a Belgrado il 23 luglio 1914» insomma era la guerra.
Poche ore dopo la capitale serba veniva bombardata, era il punto di non ritorno, l’origine di un effetto a catena che scatenò una guerra continentale.
Il 1° agosto, dopo la mobilitazione nei giorni precedenti delle truppe russe, la Germania dichiarava guerra alla Russia e due giorni dopo, il 3 agosto, anche alla Francia, una mossa preventiva, in quanto il governo tedesco era certo che quel paese sarebbe intervenuto il prima possibile al fianco dell’alleata Russia.
L’ingresso dell’Inghilterra arrivò con l’invasione tedesca del neutrale Belgio.
L’Europa, dopo decenni di pace, era nuovamente attraversata da eserciti minacciosi, le porte dell’inferno, rimaste socchiuse da più di quarant’anni, erano fatalmente spalancate.
Il 25 luglio, quando si attendeva ancora la risposta serba al diktat austriaco e il suono lugubre delle armi era ancora distante, il socialista Jean Jaures, novello Laocoonte, ebbe a scrivere:
Una serie di ipotesi, tutte precedute da inquietanti se, che, ben presto, assumeranno i contorni di mortifere trincee, il segno più tangibile di una lunga, inutile strage.
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