Fatti della Storia

Roma brucia. L’incendio del 64 d.C. e il ruolo di Nerone

Nerone e l'incendio di Roma 64 dc

L’incendio di Roma del 64 d.C. fu, come ebbe a scrivere lo storico Andrea Giardina, la più grave catastrofe sofferta dalla Città eterna nella sua quasi trimillenaria storia.

Questo è il racconto di quel terribile rogo che divampò per giorni, distruggendo buona parte della città ma anche delle presunte responsabilità di Nerone, passato, ingiustamente alla storia, come il piromane di Roma.

Roma prima dell’incendio

Roma all’alba di quel tragico 18 luglio del 64 d.C. non è solo la capitale di un grande impero ma anche una città popolata da quasi un milione di abitanti, una cifra enorme, specie per l’epoca che la rende, agli occhi di tutti, una affascinante metropoli.

A regnare su Roma e sul suo impero è Lucio Domizio Enobarbo, il giovane figlio di Gneo Domizio Enobarbo e, soprattutto, di Agrippina, probabilmente la donna più potente di Roma, in virtù, innanzitutto, del suo importante lignaggio.

Agrippina, infatti, è imparentata con due imperatori, il divino Augusto, di cui è pronipote, la nonna materna è la reietta Giulia, la figlia che Augusto ha confinato a Ventotene e Caligola, l’eccentrico imperatore assassinato qualche anno prima, di cui è la sorella. Parentele importanti ma non sufficienti per quella donna ambiziosissima che aspira a gestire tutto il potere.

Come una novella Aracne, Agrippina tesse abilmente la sua tela, nella quale cade l‘imperatore Claudio che sposa nel 49.

Agrippina, sposando Claudio, da un anno vedovo della moglie Messalina, fatta uccidere dallo stesso marito, punta chiaramente al trono, su cui potrebbe sedere quel figlio avuto nel primo matrimonio, quel Lucio Domizio Enobarbo che tutti, però da sempre, chiamano Nerone.

Nerone a Baïa, Jan Styka (1900 ca)
Nerone a Baïa, Jan Styka (1900 ca)

Ecco come lo storico Andrea Giardina spiega l’origine di quel soprannome:

«Nero è un nome (i Romani dicevano un cognomen di origine sabina che voleva dire probabilmente “il forte”, e che non aveva nulla a che fare con il colore “nero”, che in latino si diceva niger o ater.)»

E quel trono, alla fine, arriva, seppur in modo drammatico. Il 13 ottobre del 54 Claudio muore dopo aver ingerito dei funghi avvelenati e il sogno di Agrippina diventa una straordinaria realtà.

Sono passati dieci anni dalla morte di Claudio e su Roma e sul vasto impero regna da oramai dieci anni Nerone. La città, specie negli ultimi decenni, è cresciuta troppo in fretta, dimenticando i dettami architettonici imposti, non senza fatica, da Augusto.

Il caos, soprattutto nelle zone più popolari della città, regna decisamente sovrano.
Ai lussuosi palazzi, collocati in particolare sul Palatino, la zona residenziale più ambita dagli uomini più in vista e potenti di Roma, si contrappone lo squallore delle insulae, le case popolari, un groviglio di edifici che rappresenta più di una minaccia per l’integrità della città.

Il sovraffollamento che caratterizza le insulae e la loro composizione prevalentemente in legno sono la condizione ideale per il propagarsi degli incendi che scoppiano spesso, per l’effetto delle pessime condizioni di vita di molti romani che utilizzano, con poca attenzione, bracieri, fornelletti, scaldini ma anche lampade, tutti oggetti indispensabili da cui, però, si possono sprigionare improvvise e pericolose fiamme, in grado di incenerire, in poco tempo, quelle case fatte perlopiù in legno.

E quando questi roghi insorgono, intervenire per i vigiles, il corpo creato da Augusto nel 6 d.C., tra i cui compiti c’è anche quello di intervenire in caso di incendio, non è affatto un’operazione semplice, anche perché le azioni messe in atto dai progenitori dei nostri pompieri non sono moltissime e consistono, più che altro, nel tentare di circoscrivere il fuoco, per evitare che si allarghi il meno possibile.

La terribile notte del 18 luglio, Roma in fiamme

Prima del terribile rogo del 64 d.C., altri eventi deflagranti avevano interessato Roma, da quello provocato dai galli guidati da Brenno nel 387 a.C. a quelli spontanei occorsi sotto Tiberio, nel 27 d.C., o sotto Claudio nel 54 d.C., poco tempo prima della sua tragica morte. In quell’occasione a bruciare era stato il Campo Marzio, costringendo lo stesso imperatore a partecipare attivamente alle operazioni di soccorso.

Ma nessuno di questi e altri eventi riuscirà a superare per drammaticità e terribili conseguenze il grande incendio dell’estate del 64.

Il sole non è tramontato da molto, quando, sono da poco trascorse le ventidue, in quella parte del Circo Massimo che occhieggia al monte Celio, una fatale scintilla, forse, sviluppatasi in un deposito di ceppi e fascine, scocca fatalmente. Di lì, a poco, sarà l’inferno.

Le fiamme aggrediscono rapidamente quel coacervo di botteghe che caratterizza quella porzione del Circo Massimo, dove sono stipate, all’inverosimile, merci di ogni tipo, alcune, decisamente, infiammabili.

Fa caldo quella notte di metà luglio e sulla città soffia un vento tiepido proveniente dal mare, un alleato straordinario per quelle fiamme incipienti. Il fuoco avanza inarrestabile, avvolgendo, prima l’intero perimetro del Circo Massimo e aggredendo, poi, la zona del Velabro, quella dei Fori e, persino le Carine, il quartiere residenziale posto fra l’Esquilino e il Celio, facendosi rapidamente strada nelle strette vie, incenerendo casupole in legno ed edifici in mattoni, assalendo tratti pianeggianti e zone in altura.

Nulla, come ricorda Tacito nei suoi “Annales”, sembra arrestare il fuoco, «non c’erano in quel luogo case che l’isolamento proteggesse, né templi cinti di mura, né altro che potesse far da ostacolo.»

Il panico, se possibile, deflagra più rapido dello stesso incendio; i romani non sanno cosa fare, non hanno mai visto fiamme così alte, chi fugge, chi grida, chi pensa a salvare vecchi e bambini, chi prega, chi, semplicemente, si lascia bruciare.

«Tutto era intralcio – scrive ancora Tacito – la gente, mentre si guardava le spalle, veniva investita dal fuoco di fianco e di fronte, e chi riusciva a scappare nei luoghi vicini, li trovava già invasi dal fuoco, mentre i luoghi che si pensavano lontani li trovavano ardenti e ugualmente in rovina.»

Per ben sei giorni il fuoco impazza, arrivando a sfiorare perfino le pendici dell’Esquilino dove «le ultime, stremate lingue di fuoco, come scrisse Roberto Gervaso nel suo Nerone, qui si estinsero.»

Il tragico bilancio del terribile incendio di Roma

Quando all’alba del 23 luglio, anche le più indomite fiammelle sono, finalmente, domate, più dal caso che dall’intervento umano, il panorama che si palesa agli occhi dei romani è quanto mai drammatico.

Ecco come lo storico Brian H. Warmington, nel suo saggio Nerone vita e leggenda descrive il cataclisma determinato dal grande incendio del 64 d.C.

«Delle quattordici regioni in cui Augusto aveva diviso la città solo la I, la V, la VI e la XIV restarono intatte; la III, la X, e l’XI andarono completamente distrutte e tutte le altre riportarono danni di varia entità. Si salvarono il Foro, il Campidoglio e parte del Palatino, ma le perdite umane furono enormi e irreparabili i danni subiti da case private e edifici pubblici; i templi antichissimi sopravvissuti dai tempi dell’antica Roma e opere d’arte provenienti dal mondo greco andarono anch’esse irrimediabilmente perdute.»

Tra i templi fagocitati dalla furia distruttrice del fuoco c’è quello alla Luna, innalzato da Servio Tullio, la grande ara e il santuario consacrato a Ercole da Evandro, ma anche quelli innalzati a Romolo e a Giove Statore, nonché il sacrario di Vesta e quello dedicato ai Penati.

Insomma, un autentico disastro.

Non solo templi ed edifici vanno in fumo in quei terribili sei giorni. A essersi arsi da quel fuoco distruttore sono anche preziosissimi oggetti d’arte, facenti parte dei bottini accumulati, come ricorda Tacito, in tante campagne militari e, persino, alberi dal valore inestimabile, come i secolari bagolari, particolarmente apprezzati da Plinio il vecchio.

Le conseguenze umane dell’incendio del 64 d.C., sono ingentissime, anche se una conta precisa dei morti non è stata mai fatta, sebbene gli storici abbiano ipotizzato che le vittime furono migliaia, a cui si devono inevitabilmente aggiungere i tantissimi feriti, molti dei quali rimasti invalidi per sempre.

Roma, la capitale di un vastissimo impero, è in ginocchio.

Il ruolo di Nerone nel grande incendio di Roma: colpevole o innocente?

Quando, nella notte tra il 18 e il 19 luglio, l’incendio prende vita in un lembo del Circo Massimo, Nerone non è a Roma, si trova nella sua amata Anzio, dove spesso si ritira, specie d’estate, per fuggire dall’insopportabile canicola capitolina.

La notizia del dramma che sta minacciando Roma interrompe la quiete dell’imperatore. A Nerone viene riferito di come quel fuoco avanzi rapido, minacciando, addirittura, la sua Domus Transitoria.

Rientrato rapidamente a Roma Nerone dispone i primi provvedimenti, volti a fornire assistenza al popolo romano, a coloro che, in poco tempo, hanno perso tutto.
Viene aperto alla gente il Campo Marzio, si mettono, addirittura, a disposizione i lussuosi appartamenti di Agrippina, uccisa, tempo prima, per volere dello stesso Nerone.

Il rimorso dell'imperatore Nerone dopo l'assassinio di sua madre, John William Waterhouse
Il rimorso dell’imperatore Nerone dopo l’assassinio di sua madre, John William Waterhouse

Da Ostia arrivano i primi generi di conforto e il prezzo del grano viene, opportunamente, abbassato, onde permettere a tutti di acquistarlo.

Ma quei primi, immediati provvedimenti, come riporta il solito Tacito, «non raggiunsero l’obiettivo voluto, perché era circolata la voce che proprio nel momento in cui Roma bruciava, Nerone fosse salito sul palcoscenico del palazzo per cantare la rovina di Troia, assimilando la catastrofe attuale a quell’antica sciagura.»
La voce di cui riferisce Tacito sarà fatale per la nascita della leggenda di un Nerone piromane, responsabile di quell’immane rogo che distrusse un sesto di Roma.

Nerone e il grande incendio di Roma, Karl Theodor von Piloty
Nerone e il grande incendio di Roma, Karl Theodor von Piloty

L’autore degli “Annales” che scrive diversi decenni dopo i fatti narrati, oltretutto non proprio un fan dell’imperatore romano, non prende, in realtà, posizione, limitandosi a proporre sia l’ipotesi accidentale che quella dolosa.

Oggi, a distanza di quasi duemila anni, gli storici sono concordi nel ritenere che l’incendio del 64 d.C., non si scatenò per volere dell’ultimo discendente di Augusto, ma fu l’effetto di una serie di fatalità.

D’altra parte la storia di diverse metropoli del mondo è segnata dal dramma ricorrente degli incendi, come nel caso di quello londinese del 1666 o dell’incendio che distrusse buona parte di Chicago nel 1871 o, in tempi più recenti, il rogo di Texas City, del 1947, originato da un piccolo incendio divampato in una stiva di una nave ancorata in porto e che in breve avvolse l’intera città, determinando distruzione e morte.

A fomentare il fuoco del sospetto che fosse stato Nerone a far appiccare il fuoco furono diversi argomenti che si propagarono rapidi, quasi più delle fiamme. Uno, però, sembrò più persuasivo, al punto da convincere gli accusatori coevi e postumi di Nerone: la costruzione della Domus aurea.

L’edificazione di quella splendida dimora che, non senza sarcasmo Svetonio descrisse nella sua “Vite dei Cesari” iniziò quasi subito il definitivo spegnimento dell’incendio del 64, sui terreni ancora fumanti di quella valle che in futuro ospiterà il Colosseo.

Davanti a una simile circostanza anche i più scettici tra i denigratori di Nerone avevano, in effetti, più di un motivo per dubitare dell’imperatore, reo di aver fatto appiccare il fuoco, mentre era fuori città, per poter poi realizzare i suoi ambiziosi progetti edificatrici.

Ma si trattò, al netto di qualsiasi considerazione, di una motivazione flebile, seppur ammantata da un sinistro fascino.

«La Domus aurea – come ha scritto lo storico Andrea Giardina – non è affatto una prova della colpevolezza di Nerone e ritenerla tale vuol dire ricorrere alla tipica argomentazione post hoc propter hoc (siccome dopo è avvenuto questo, allora lo scopo era appunto questo). Fu piuttosto un gravissimo errore politico: le condanne antiche degli interventi neroniani in quell’ampia area della città insistevano sul fatto che egli, approfittando della devastazione provocata dall’incendio, aveva acquisito, per il proprio uso personale, spazi che tradizionalmente appartenevano alla collettività, sia per l’edilizia abitativa, sia per le funzioni pubbliche.»

Insomma Nerone fu, certamente, insensibile, pensando, mentre buona parte della città ancora fumava e la gente piangeva i propri morti, alla sua futura, sfarzosa residenza, di cui aveva già programmato la costruzione prima dell’incendio stesso ma, di sicuro, non ebbe alcuna responsabilità nello stesso, prodigandosi, anzi, per cercare di allievare il dramma di moltissimi suoi sudditi.

E di questo, il suo popolo, in gran parte, gli fu grato, come testimoniò il retore greco Dione di Prusa che alcuni decenni dopo scrisse di come la plebe fosse ancora legata a Nerone, al punto che in molti desideravano non fosse morto.

A quasi duemila anni, dunque, si può affermare con certezza che quell’infamante accusa è ormai decaduta. Nerone commise svariati errori, si macchiò di atroci delitti, accusò ingiustamente i cristiani, per placare la rabbia popolare per gli effetti di quel terribile incendio, di aver appiccato loro il fuoco, ma non fu, di certo, il piromane di Roma.

Le fiaccole di Nerone, Henryk Siemiradzki (la persecuzione contro cristiani)

Ma, con buona pace degli storici, l’immagine di un Nerone incendiario è dura a morire, eternata dalla letteratura e, in tempi recentissimi, dal cinema. Impossibile, in tal senso, dimenticare il grande Peter Ustinov che, nel film “Quo Vadis” di Mervyn LeRoy, veste i panni di Nerone.

In quella pellicola, una delle scene più memorabili, è proprio quella in cui Nerone, per la cui interpretazione Ustinov ottenne una nomination quale migliore attore non protagonista all’edizione degli Oscar del 1952, osserva dalla terrazza del suo palazzo l’incendio che sta cancellando Roma.

Quel dramma fatto di fiamme altissime che con le loro rosse spire avvolgono qualsiasi cosa, è improvvisamente fonte d’ispirazione per l’aedo Nerone che, prima di imbracciare la lira, annuncia trepidante a un atterrito Petronio, interpretato dal bravo Leo Genn «guarda cosa ho creato» e poi, come se nulla fosse, dopo aver indossato il suo mantello funebre, inizia fatalmente il suo canto.

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