Fatti della Storia

Le elezioni del 1921, l’imperdonabile errore di Giovanni Giolitti

Elezioni del 1921

Le elezioni del 1921 furono, per certi aspetti, un avvenimento decisivo della nostra storia perché, se da una parte segnarono l’inizio della parabola discendente di Giovanni Giolitti, fino a quel momento protagonista indiscusso del panorama politico italiano, dall’altra videro l’indubbia ascesa di Mussolini e dei fascisti che si completerà, di lì a poco, con la Marcia su Roma.

Questo è il racconto di quelle elezioni che videro un unico, grande sconfitto: Giovanni Giolitti.

Le strategie politiche di Giolitti all’indomani del congresso socialista

Il 15 maggio 1921 gli italiani, dopo nemmeno due anni, tornavano alle urne. Lo facevano per effetto della decisione presa dal sovrano, Vittorio Emanuele III, il 7 aprile 1921, di sciogliere la Camera dei Deputati, un provvedimento figlio di una precisa strategia politica.

Inaugurazione della XXV Legislatura italiana (Illustrazione italiana, 1919), Pubblico dominio, fonte: Wikipedia

A pensare insistentemente a nuove elezioni fu, soprattutto, il presidente del consiglio Giovanni Giolitti, da più di vent’anni, di fatto, il dominus della scena politica italiana.

L’inatteso esito del congresso del Partito socialista di Livorno, nel gennaio del 1921, aveva scompaginato i progetti dello statista piemontese. Questi, infatti, si aspettava che da quella assise uscisse vincente il socialismo riformista con cui avrebbe potuto intavolare delle trattative finalizzate all’ingresso nel governo, puntellando, così, una maggioranza che da troppo tempo annaspava nelle paludi dell’incertezza.

Giacinto Menotti Serrati
Giacinto Menotti Serrati

Ma l’esito del congresso livornese fu il peggiore che Giolitti potesse auspicare. Alla vittoria dei massimalisti di Serrati, che ebbero la meglio sui riformisti di Turati, si aggiunse anche la scissione messa in atto dal gruppo vicino a Bordiga e Gramsci, fondatori del Partito comunista d’Italia.

A Livorno, insomma, come in seguito commentò Pietro Nenni, «cominciò la tragedia del proletariato italiano», ma, per certi aspetti anche l’ascesa politica del fascismo, perché fu a esso che, inevitabilmente, Giolitti iniziò a guardare, convinto che potesse trovare a destra la soluzione per rafforzare il suo potere, la sua fragile maggioranza.

L’idea del vecchio statista piemontese, non ancora avvezzo al ritiro dall’agone politico, fu quella di creare una composita alleanza elettorale, battezzata Blocchi nazionali, in cui includere, oltre alle tradizionali forze liberali, anche quelle nazionaliste di Enrico Corradini e, soprattutto, quelle fasciste in capo a Benito Mussolini, la cui presenza allarmò più di un liberale, a partire dal senatore Albertini che, in più di un’occasione, espresse la sua contrarietà alla presenza di Mussolini nelle liste dei Blocchi.

Il fascismo agrario, un movimento che fa paura

Nella primavera del 1921 la realtà dei Fasci italiani di combattimento era quanto mai complessa e articolata. Al fascismo delle origini, quello sorto a Milano nel marzo del 1919, uscito, oltretutto, devastato dalle elezioni del 1919 , si era associato, negli ultimi tempi, il cosiddetto fascismo agrario.

Più che di due facce di un’unica medaglia, si trattava, come evidenziò Antonio Gramsci, di due veri e propri fascismi; uno urbano, collaborazionista, personificazione, soprattutto, di Benito Mussolini e uno agrario, provinciale, legato al capitalismo rurale e decisamente intransigente. Mentre il primo rappresentava un fattore dinamico, inserendosi a pieno titolo nel consesso politico, il secondo, al contrario, altro non era che la risposta, la più violenta possibile, di alcuni settori più retrogradi della società italiana al clima politico e sociale di quei tempi.

Biennio Rosso: operai armati occupano le fabbriche a Milano
Biennio Rosso: operai armati occupano le fabbriche a Milano (Pubblico dominio/Wikipedia)

Dell’azione del fascismo agrario si giovò, e non poco, quella parte più conservatrice e reazionaria della borghesia italiana che, spaventata dall’esperienza del Bienno rosso e delusa dalle decisioni della politica ufficiale, si appoggiò a quel movimento capace, tuttavia, solo di promuovere azioni violente contro i nemici di turno, sindacati, socialisti e comunisti. Al fascismo agrario, infatti, mancava e del tutto, una reale prospettiva politica.

Ecco il giudizio dello storico Renzo De Felice sul fascismo agrario: 

«il fascismo delle zone agricole quasi nulla aveva in comune col fascismo mussoliniano. Era borghese nel senso più gretto del termine, privo di quelle aperture nazionali e talvolta sovranazionali che aveva la borghesia urbana e di ogni ideale che non fosse quello dell’intransigenza reazionaria più brutale: una intransigenza che non vedeva più in là dei propri interessi, immediati e locali di classe.»

Due fascismi che, al contrario di quanto ipotizzò Gramsci, convinto che il contrasto sarebbe sfociato in una inevitabile scissione, seppur a fatica, impararono, a convivere, pur rischiando l’insanabile rottura.

Se ciò non avvenne fu, principalmente, merito di Mussolini, capace di padroneggiare il dissidio fra l’anima politica del fascismo, che mirava di arrivare al potere tramite la via parlamentare, e quella esclusivamente violenta, priva di una vera e propria strategia, capace solo di menare le mani, di incutere terrore.

Manifestazione dei Fasci italiani di Combattimento
Manifestazione dei Fasci italiani di Combattimento (Bologna 1921), Pubblico dominio

Mussolini, non senza difficoltà e rischiando più volte la rottura, riuscì a utilizzare il fascismo agrario per i suoi scopi, ottenendo una crescita in ordine di iscrizioni mai conosciuta prima. Dai poco più dei 20.000 iscritti della fine del 1920, quando il fascismo agrario non si era ancora totalmente imposto, si passò, esattamente un anno dopo, a quasi 250.000, un dato considerevole, specie se confrontato con quello del più importante partito italiano, quello socialista, che poco prima del congresso di Livorno, ovvero all’apice della sua forza, contava 216.327 iscritti, suddivisi su 4.367 sezioni.

Ma a fare da contraltare a questo dato numerico c’era la violenza che il fascismo agrario portava in dote ai fascisti della prima ora, un fattore che spaventava la politica ufficiale e che Giolitti, ingenuamente, credette di poter contenere, cooptando nei Blocchi nazionali il movimento fascista.  Ma si sbagliava e di molto.

Il limite maggiore di Giolitti, rispetto all’insorgere nel 1921 della violenza fascista, fu quello di non comprendere appieno la novità storica e politica del movimento fascista. Per il vecchio statista piemontese, un uomo politicamente e culturalmente formatosi nell’Ottocento, la violenza politica, in quanto tale, era inammissibile, visto che per lui nessun partito poteva, anche lontanamente, andare contro lo Stato, minandone le sue fondamenta con lo scopo di desiderare la sua stessa distruzione.
Così lo storico Gabriele De Rosà:

«Giolitti e i suoi immediati collaboratori vedevano i fascisti ma non il fascismo, vedevano i reati ma non il sovversivismo; parlavano di “ordine turbato” e di “quiete pubblica da restaurare”, ma sembrava che ad essi sfuggisse la complessità del moto insurrezionale che stava sgretolando tutta l’impalcatura dello Stato liberaldemocratico.»

Elezioni del 1921: la campagna elettorale tra proclami e inaudite violenze

Quella che si aprì l’8 aprile 1921, all’indomani dello scioglimento della Camera dei Deputati, fu una campagna elettorale brevissima, poco più di un mese ma segnata, tuttavia, da un impegno politico enorme da parte di tutte le parti in causa e, soprattutto, da un crescendo di violenze inaccettabili.

Benito Mussolini
Benito Mussolini

Uno dei protagonisti di quella campagna elettorale fu, indubbiamente, Mussolini che, nella strategia di Giolitti, avrebbe dovuto essere, tutto al più, un comprimario.
Il leader fascista in più di un comizio cercò di smarcarsi da Giolitti, giudicato più un avversario che un effettivo alleato. Emblematico, in tal senso, fu l’attacco che Mussolini gli lanciò il 26 aprile, a tre settimane dal voto.

In quell’occasione vaticinò che la futura Camera dei Deputati non sarebbe stata a immagine e somiglianza di Giolitti, «un uomo soverchiato da altre forze», ma avrebbe visto l’affermazione di gente nuova che si preparava a navigare con l’unico scopo di arrivare al governo.

Ma a caratterizzare quella campagna elettorale non fu tanto la strategia politica di Mussolini, quanto l’inaudita violenza che la contrassegnò e che, nella stragrande maggioranza dei casi, ebbe una matrice fascista, una violenza che Mussolini cercò sempre di minimizzare, respingendo ogni accusa e scaricando, semmai, le responsabilità sugli odiati socialisti e sugli ultimi arrivati, i comunisti.

La speranza vagheggiata da Giolitti che con l’apertura della campagna elettorale il clima politico si sarebbe inevitabilmente rasserenato, si sperse nell’aria di una fredda primavera. Nel periodo compreso fra l’8 aprile e il 14 maggio si registrarono 105 morti e 431 feriti, numeri drammatici che certificavano come la violenza politica fosse, purtroppo, il partito più forte, quello più difficile da sconfiggere.

Le elezioni politiche del 1921, vincitori e vinti

Il 15 maggio 1921, 6.701.496 italiani, il 58,4% degli aventi diritto, si recarono alle urne. Fra loro per la prima volta anche i votanti dei territori neo annessi della Venezia Tridentina e della Venezia Giulia; sul piatto 535 seggi elettorali, 27 in più rispetto alle precedenti elezioni, distribuiti su 40 collegi elettorali.

Giovanni Giolitti
Giovanni Giolitti

Le ottimistiche previsioni di Giolitti, che immaginava un successo dei suoi Blocchi, specie per la componente liberale, si infransero contro la cocente realtà emersa dalle urne.

Il voto degli italiani maggiorenni e maschi, le donne voteranno solamente a partire dal 1946, fu ben diverso da quello auspicato dal politico liberale che aveva previsto la netta sconfitta dei socialisti e un significativo ridimensionamento dei popolari.
Ma le cose non andarono proprio così.

La prevista debacle socialista non si verificò; nonostante la perdita di 33 seggi rispetto alle precedenti elezioni, il partito socialista aveva sostanzialmente tenuto, considerando anche i 15 seggi conquistati dai comunisti.

Ancora più sbagliate erano state le previsioni sul Partito popolare che guadagnò ben 8 seggi rispetto al già straordinario risultato della precedente tornata elettorale.

Quanto ai Blocchi Nazionali il voto premiò la componete fascista e nazionalista, capace di conquistare ben 55 seggi, tre in meno di quelli ottenuti dai liberali di Giolitti.

Mussolini, che nel 1919 aveva preso un pugno di voti, fu il terzo deputato più votato d’Italia, trascinando il suo movimento alla Camera con ben 35 deputati.

Così, il 19 maggio, a quattro giorni dal voto, il “Corriere della Sera” commentò l’esito delle urne:

«Tutti paiono vincitori e le dispute fervono intorno alla ricerca dei vinti. Ma c’è un punto sul quale i discordi commenti s’incontrano: la sconfitta del Governo. È una sensazione generale, che si deve essere estesa sino al Presidente del Consiglio.»

La speranza di Giolitti e del suo governo di rafforzarsi grazie alle elezioni naufragò al cospetto di una patente sconfitta. Agli occhi di molti commentatori la decisione affrettata di sciogliere la Camere e andare alle urne fu un enorme errore strategico perché, il Governo, pur in difficoltà, aveva, pur sempre una maggioranza che, già solo con la minaccia delle elezioni si era in parte rafforzata.

Giolitti e i suoi ministri, invece di andare subito alle elezioni, in un clima politico decisamente incerto, avrebbero dovuto guadagnare tempo e andare al voto nel successivo autunno o, meglio, nella primavera del 1922 quando, a detta di molti, il risultato elettorale avrebbe potuto essere migliore.

Ma Giolitti ebbe fretta e quella insana sollecitudine fu uno dei suoi sbagli politici peggiori, un errore imperdonabile. La delusione di Giolitti per l’esito del voto fu manifesta. Dall’eremo piemontese analizzò i risultati elettorali che mostravano come la maggioranza degli italiani non credesse più in lui e nella sua camaleontica politica, capace di mantenersi sempre in un equilibrio precario. 

Questa volta la nave che aveva sempre condotto in porto con mano ferma stava per inabissarsi. La strategia politica di utilizzare i fascisti e i nazionalisti era miseramente fallita e lui, il grande vecchio della politica italiana, doveva necessariamente ammettere la sua personalissima sconfitta che appariva netta e su tutti i fronti.

Ivanoe Bonomi
Ivanoe Bonomi

Il voto elettorale lo aveva irrimediabilmente azzoppato; altri erano i volti di successo in quella metà di maggio e fra questi quello di Mussolini che, nelle ore successive al voto, rilasciò più di un’intervista, dove sottolineò come il risultato delle elezioni fosse stato per i fascisti «oltremodo soddisfacente» auspicando come, proprio in virtù di quell’evidente successo, il movimento potesse prima o poi trasformarsi in un vero e proprio partito.

L’ultima coda di quel voto fu la decisione del re, Vittorio Emanuele III, di affidare l’incarico per la formazione del nuovo governo a Ivanoe Bonomi, storico dirigente socialista, espulso dalle fila del partito con Bissolati e Cabrini, all’indomani del congresso di Reggio Emilia del 1912 che aveva visto trionfare nel partito socialista la componente massimalista.

Fu, quella di Bonomi, una compagine decisamente debole, dalla quale rimasero fuori sia i socialisti che i fascisti, un governo di ripiego, come lo giudicò un gongolante Mussolini, che, ben presto, passerà il testimone a un esecutivo, se possibile, ancora più impalpabile, guidato dal giolittiano Luigi Facta che, dimettendosi, nell’ottobre del 1922, segnerà l’avvento, definitivo, del fascismo e di Benito Mussolini.

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