Cinquant’anni fa nelle profondità blu davanti a Riace Marina, in provincia di Reggio Calabria, un giovane sub nel corso di un’immersione scorge il profilo di una spalla, meravigliosa anticipazione di una scoperta archeologica sensazionale, per certi aspetti unica nel suo genere.
In quel lembo di mare calabrese, a otto metri di profondità, giacciono due statue antiche che una volta riportate in superficie diventeranno per tutti i Bronzi di Riace.
Questo è il racconto di quel ritrovamento e della storia di quelle bellissime statue.
Pensavo fosse un sasso e invece…
Monasterace, Calabria, 16 agosto 1972. Il Ferragosto è ormai alle spalle e l’estate inizia a colorarsi di ricordi e nostalgia. Ma per il romano Stefano Mariottini non è ancora tempo di chiudere le valigie; per lui le vacanze sono appena cominciate, è ospite di un suo amico e non vede l’ora di indossare la tuta da sub e immergersi nelle cristalline acque calabresi alla ricerca di pesci e tesori nascosti.
L’archeologia subacquea, d’altra parte, è una delle sue passioni più grandi, studiata prima sui libri e poi sperimentata dal vivo, nelle acque davanti Monasterace, che visita per la prima volta nel 1964, teatro del perfetto connubio tra due grandi amori, il mare e l’archeologia.
Mariottini quel 16 agosto, nello stesso momento in cui in tanti caricano auto stipate all’inverosimile pronte a intraprendere malinconicamente la strada di casa, dopo aver scattato le ultime foto che finiranno in album da scorrere nelle giornate d’inverno, è già in acqua, il suo elemento naturale, alla ricerca di scogli isolati, dove scovare i pesci migliori.
Mentre scende nelle profondità del mare davanti alle coste di Riace Marina, scorge qualcosa che lo incuriosisce.
Ecco come lo stesso Mariottini racconta quello che sarà uno dei ritrovamenti più importanti di sempre, una scoperta che lo ripagherà per gli infiniti sforzi e per il tanto studio.
Quando torna a riva, stremato e quasi senza fiato, si rende conto che in quel lembo di mare è celato qualcosa di unico e, cosa ancora più incredibile non si tratta solo di una statua ma di ben due, perché a poca distanza scorge l’altro bronzo. E’ nascosto sotto qualche centimetro di sabbia, ma, per fortuna, è intero e bellissimo.
Il 21 agosto iniziano le operazioni di recupero, condotte dal Centro subacqueo dei Carabinieri. Non sono semplici, non tanto per la profondità, quanto per la delicatezza dei reperti.
La prima a essere recuperata è la scultura A; due giorni dopo è la volta di quella B. Tra le righe del verbale stilato dalle autorità, con una vecchia macchina per scrivere, al netto del burocratese, emerge chiaramente l’unicità di quella casuale, straordinaria scoperta.
Alla scoperta dei Bronzi di Riace, i gemelli diversi riemersi dal mare
Ancora oggi, nonostante siano passati cinquant’anni da quel 16 agosto, i due Bronzi di Riace non hanno un nome ma sono noti soltanto con due lettere, le prime due dell’alfabeto. Ma, in effetti, dare un titolo alla bellezza non è sempre facile, anzi talvolta, è un’operazione del tutto inutile.
Ma chi sono e da dove vengono quei due bronzi? Difficile dirlo con certezza, nonostante stuoli di archeologi abbiano cercato in questo cinquantennio di dare un nome e una casa alle statue calabresi, giustamente definiti da qualcuno i gemelli diversi.
Apparentemente simili, a prima vista quasi identici, i due Bronzi di Riace, molto probabilmente di fattura greca, gli stilemi dorici rimandano all’Occidente greco e risalenti al V secolo a.C., sono, in realtà, differenti fra loro.
Vediamo, innanzitutto, gli aspetti in comune. I due Bronzi sono nudi, bilanciati e poggianti entrambi sulla gamba destra, con tutti gli arti a riposo, in una tipica disposizione chiastica, eccezion fatta per le braccia sinistre che risultano sollevate per sostenere forse degli scudi, andati, purtroppo, perduti.
Inoltre hanno le labbra e i capezzoli in rame, gli occhi in avorio, la sclera in calcite mentre le ciglia sono in argento. Ma le similitudini finiscono qui perché quei due giganti, pur essendo la perfetta sintesi di una straordinaria fattura, vetta altissima di una perfetta fusione del bronzo, ostentano evidenti differenze.
Conosciamoli meglio, allora, questi gemelli diversi.
La statua A (o guerriero A) è la più alta di un centimetro, misura, infatti, 1.98 metri e possiede una ricca capigliatura, i cui morbidi riccioli fuoriescono abbondantemente dalla fascia che cinge l’ampia fronte ed è dotata di denti, esibiti, oltretutto, cosa rara nella statuaria classica, in una rara forma di evidente animosità.
B, invece, si distingue per una posizione meno statica, più mobile, decisamente più naturale e, infine, per la presenza di una cuffia in rame.
Ma chi erano e da dove provenivano? Senza dubbio si tratta di due opliti, anche se il Bronzo B, potrebbe essere un re guerriero. Sono stati scolpiti insieme, seppur a distanza di qualche anno, forse con altre statue ma, sicuramente, sono stati forgiati ad Argo, nel Peloponneso, come confermato dalle terre di fusione.
Dall’antica città dell’Argolide, il cui nome discende dal leggendario re, figlio di Zeus e Niobe, i Bronzi, intorno al I secolo d.C. partono alla volta di Roma, per essere ammirati ma soprattutto restaurati; ed è in questa circostanza che il braccio destro e l’avanbraccio sinistro di B, probabilmente molto danneggiati, vengono sostituiti con nuove parti, rigorosamente in bronzo.
Nella Roma dei Cesari i due colossi rimangono almeno fino al IV secolo d.C., per la gioia degli abitanti, estasiati al cospetto di tanta eleganza; poi, di loro, si perdono per sempre le tracce.
Si ipotizza che sotto Costanzo II partano alla volta di Costantinopoli, per abbellire, ancor di più, la Nuova Roma fondata sul Bosforo; ma quel viaggio finisce prima dell’agognata destinazione.
La nave, infatti, eventualità non rara, davanti alle coste di Riace affonda e quel prezioso contenuto finisce nelle profondità di un mare che le custodirà gelosamente fino a quel 16 agosto 1972.
Proprio la provenienza da Argo, ha spinto alcuni archeologi a ipotizzare che i due Bronzi potessero, al pari di altre statue, avere a che fare con il celebre mito dei Sette a Tebe, caposaldo della drammaturgia greca, episodio narrato da diversi tragediografi, architrave della cultura greca.
In particolare, secondo i sostenitori dell’ipotesi “argiva” i due Bronzi rappresenterebbero i due figli di Edipo che nella celebre tragedia avevano inizialmente stabilito di spartirsi il potere sulla città di Tebe, alternandosi alla guida della città un anno a testa.
Polinice sarebbe il Bronzo A; mentre B raffigurerebbe Eteocle, colui che, rifiutandosi di lasciare il posto al fratello allo scadere del primo anno, determinò, di fatto, venendo meno al patto sancito, l’inizio della guerra fratricida.
Da Firenze al Quirinale, il viaggio dei Bronzi di Riace
Dopo un primo, indispensabile intervento di pulitura, effettuato a Reggio Calabria, nel gennaio del 1975, i gemelli diversi partono alla volta di Firenze, per accedere nel Centro di Restauro della Soprintendenza Archeologica, fondato nel capoluogo toscano dopo la drammatica alluvione del 1966.
Nella culla del Rinascimento le due statue sono affidate alle preziose cure di un’equipe di restauratori, tra i migliori d’Italia. Lo stato di conservazione non è ottimale, la lunghissima permanenza nel mare ha determinato ingenti danni ma il restauro, durato quasi quattro anni, riporta i due colossi quasi all’aspetto originario.
Quando il 15 dicembre 1980 i due guerrieri vengono esposti nelle sale del Museo Archeologico di Firenze, lo stupore dei moltissimi visitatori che fino al 24 giugno affollano la struttura fiorentina, è assoluto.
Chiunque veda per la prima volta quelle due meraviglie rimane basito al cospetto dell’armonia, dell’eleganza ma anche del mistero che pervade quelle due statue senza tempo.
Dopo Firenze è la volta di Roma. A volere i Bronzi di Riace al Quirinale è il presidente della Repubblica più amato di sempre: Sandro Pertini. Nella Sala della Vetrata, un tempo attraversata da papi e re, i colossi argivi fanno bella mostra di loro, ammirati, coccolati da migliaia di persone che per sole due settimane, in quella calda estate del 1981, fanno ore di fila pur di vederli dal vivo.
Ma per i due Bronzi è giunto il tempo di tornare a casa, di intraprendere l’ultimo viaggio, alla volta di Reggio Calabria e di quel Museo Archeologico che, dopo il disastroso terremoto del 1908, fu ricostruito su progetto dell’architetto Marcello Piacentini, secondo i più sofisticati crismi antisismici e inaugurato nel 1959.
I due Bronzi vengono esposti al pianterreno, in un’ampia sala, dalla quale non si sono più mossi, nonostante non siano mancate nel corso dei decenni pressanti richieste per esposizioni temporanee.
La prima è datata 1984. A volerle è il governo americano che agogna la presenza dei due “argivi” in occasione dell’inaugurazione delle Olimpiadi di Los Angeles. La richiesta provoca un fitto dibattito nell’opinione pubblica spaccata tra fautori del prestito e convinti oppositori. La decisione ultima, tuttavia, spetta alla politica che dispone come i Bronzi, con buona pace degli americani e delle loro fantasmagoriche olimpiadi, non lascino l’Italia.
L’ultimo tentativo di avere, seppur temporaneamente, i colossi calabresi risale al 2015, quando gli organizzatori dell’Expo di Milano provano a ottenere il prestito di quelle meravigliose statue, cameo ideale per una manifestazione a carattere mondiale.
Ma pur insistente e corroborata da autorevoli pareri da parte di coloro favorevoli al prestito, quella che sembra essere una vera e propria supplica, non ha effetto.
Da Reggio Calabria i Bronzi di Riace non si muovono.
A proposito delle due statue rinvenute nell’agosto del 1972 nelle acque calabresi, il giornalista del “Il Corriere della Sera” Sabatino Moscati, in un articolo apparso nelle pagine del quotidiano milanese, così si espresse sullo straordinario successo di pubblico che quei due colossi ottennero a Firenze prima e a Roma poi:
«Il fatto sta che i Bronzi di Riace non costituiscono solo un rinvenimento straordinario e un altrettanto esempio della prodigiosa tecnica di restauro oggi possibile. Essi costituiscono qualcosa di molto più importante per il pubblico, e in ogni caso di molto più emozionante: la rivelazione dell’arte al sommo del suo splendore, l’emergenza del bello con tutta la potenzialità del suo fascino.»