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Il discorso di Hirohito, la resa di un dio

Seconda Guerra Mondiale, resa del Giappone

Il 14 agosto 1945 sua maestà imperiale Showa, nato Hirohito, 124° imperatore del Giappone, il cui titolo onorifico è Michi no miya, registra un discorso alla radio che farà la storia sua e del paese sul quale regna incontrastato dal 1926.

Nel lungo messaggio che la popolazione nipponica ascolterà soltanto il giorno dopo, Hirohito annuncia la resa del Giappone, l’uscita di scena da un conflitto lungo e tragico, che nei giorni precedenti, con lo sgancio di due ordigni atomici sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, ha toccato il punto di non ritorno.

Con quel discorso Hirohito certifica una scelta inevitabile, nonostante la resistenza di molti ufficiali, favorevoli a proseguire la guerra, nonostante tutto.
Non si tratta solo dell’annuncio di un’inevitabile capitolazione ma della discesa in terra, attraverso l’etere, di un dio, simbolo incontrastato di un intero popolo.

Hirohito sul trono del Giappone

Sono appena scoccate le ore 23.00 quando un tecnico della NHK, acronimo della Nippon Hōsō Kyōkai, la radio pubblica giapponese, fondata nel 1926 sul modello della più celebre BBC, invita un signore magrolino, con gli occhialini tondi e in metallo a leggere il testo che ha davanti.

Ancora un istante e la sua voce sarà registrata. Quello speaker improvvisato e visibilmente impacciato, financo teso, non è un giapponese qualsiasi ma un vero e proprio dio in terra. Quell’uomo che non è avvezzo a parlare in pubblico, tantomeno a far registrare la sua voce da un curioso oggetto metallico, è Hirohito, il 124° imperatore del Giappone.

L'imperatore Hirohito
L’imperatore Hirohito

Lo è dal 1926, curiosamente dallo stesso anno in cui la NHK ha cominciato, seppur in via sperimentale, a fare trasmissioni radiofoniche. Ma Hirohito, prima ancora che un sovrano assoluto, un capo di stato, è un dio e un dio, di solito, non parla in pubblico, ancor meno in radio.

Ma quel radiomessaggio che si appresta a leggere non solo è necessario ma assolutamente indispensabile. Hirohito, infatti, sta per registrare il discorso di resa del suo Giappone, l’atto che sancirà la fine del secondo conflitto mondiale.

A piegare la volontà dell’imperatore divino che, ironia della sorte, dopo la sua incoronazione diede inizio all’era Shōwa, ovvero della pace illuminata, sono gli ultimi, drammatici eventi bellici, quelle due devastanti bombe che, sganciate dagli aerei americani su Hiroshima prima e Nagasaki poi, hanno seminato morte e distruzione in un tempo troppo piccolo, spalancando le porte dell’inferno, mostrando al pugnace Giappone la disarmante potenza nucleare statunitense.

La guerra è finita, ma soprattutto è irrimediabilmente persa; non ci sono altri appigli, improbabili ancore, rimane solo la resa, da comunicare ai sudditi attraverso un insolito radiomessaggio che irromperà con il suo contenuto sensazionale nelle case nipponiche il giorno dopo, alle 12.00 in punto di un indimenticabile 15 agosto 1945.

Hirohito nasce a Tokyo il 29 aprile 1901, all’alba di un secolo che si alimenterà di inaudite catastrofi. Il 25 dicembre 1926, mentre nel mondo cristiano si festeggia il Natale, il Giappone sprofonda nel lutto. L’imperatore Taisho, (al secolo Yoshihito) dal 1912 sul trono del Paese del Sol Levante, è morto. In quello stesso giorno il primogenito Hirohito diviene il 124° imperatore del Giappone.

L'imperatore Hirohito
L’imperatore Hirohito (Public Domain/Wikipedia)

Come consuetudine il nuovo sovrano giapponese appare pochissimo, chiuso nelle inaccessibili stanze del suo palazzo imperiale, affidando il potere nelle mani delle élite militari, da sempre cardine insostituibile su cui ruota tutto l’impero.

La politica promossa dai generali è di natura aggressiva, incentrata sull’espansione nipponica, da ottenere ai danni degli odiati vicini. Prima la guerra con la Cina (1937-1945), poi la decisione di entrare nel secondo conflitto mondiale, accanto alla Germania hitleriana e all’Italia fascista, segnano il passo, costellato da scelte belliche dagli effetti dirompenti, a partire dall’attacco, il 7 dicembre 1941, a una base navale statunitense nell’atollo delle Hawaii, uno dei punti di svolta nella storia della Seconda guerra mondiale.

Le azioni militari promosse dai generali, nessuna esclusa, sono pienamente condivise dall’imperatore che, per usare le parole dello storico Herbert Bix, «come un ragno silenzioso posizionato al centro di un’ampia rete dalle molte ramificazioni, allungava i suoi filamenti in ogni organo dello stato, dell’esercito e della marina, assorbendo – e ricordando – le informazioni che gli altri gli fornivano.»

Ma la guerra tanto agognata dai militari giapponesi, non va per il verso sperato.
Gli anni trascorrono e, nonostante l’enorme sforzo militare profuso dal Giappone, la situazione bellica, come dirà lo stesso Hirohito nel radiomessaggio, non si sviluppa a favore dello stato nipponico.

Il 3 maggio 1945 l’alleato germanico, a quasi due anni di distanza dalla caduta in Italia del Fascismo, si arrende.

In Europa gli echi bellici finalmente tacciono, ma per il Giappone non è ancora tempo di desistere. Per un popolo che ha fatto della guerra una ragione di vita, il conflitto va avanti e mentre il sipario cala inesorabilmente sul Vecchio Continente, in Estremo Oriente le armi risuonano drammaticamente, causando ancora morte e infiniti dolori.

Le bombe di Hiroshima e Nagasaki

Nonostante le cocenti sconfitte che in quella tarda primavera del 1945 continuano a ripetersi con ritmo incalzante, le truppe nipponiche continuano a combattere, certe della vittoria finale.

Gli attacchi americani alle coste giapponesi non diminuiscono ma l’esercito nipponico resiste, mostrando un ardore incredibile che spiazza il governo degli Stati Uniti, ingenuamente convinto che la disfatta del nemico fosse prossima.

Una portaerei USA colpita da due kamikaze l'11 maggio 1945
Una portaerei USA colpita da due kamikaze l’11 maggio 1945 (Public Domain/Wikipedia)

Per capire la portata della resistenza giapponese in quel lembo finale del conflitto, basti, soltanto, la vicenda dell’occupazione di Okinawa, ottenuta dagli americani solo a fronte di tre settimane di interminabili attacchi che lasciano sul campo di battaglia migliaia di vittime e un deserto di distruzioni.

Nelle stanze del potere americano si comprende che senza una vera e propria svolta la guerra in Oriente può andare avanti ancora parecchio, con conseguenze militari, economiche e sociali devastanti per gli Stati Uniti.

Serve una soluzione immediata, qualcosa di dirompente che costringa il Paese del Sol Levante ad alzare bandiera bianca e la soluzione, anche questa volta, non può che essere militare.

Il 6 agosto 1945 dalla pancia di un B-29 che il suo pilota ha ribattezzato Enola Gay, in onore della madre, cade Little Boy, la prima bomba atomica utilizzata in un conflitto. A consentire l’utilizzo di quell’ordigno sulla città giapponese di Hiroshima è lo stesso presidente americano Truman che, appreso dello sganciamento della bomba, cinicamente esclama: «questa è la cosa più straordinaria della storia.»

Gli effetti di quello sgancio sulla città nipponica più che straordinari sono drammaticamente inenarrabili. I morti sono decine di migliaia, un conto esatto non è stato mai stilato ma, di sicuro, non è inferiore alle centomila unità. Hiroshima, importante centro portuale, è incenerita, spazzata via in quel mattino di inizio agosto.

Hiroshima dopo lo scoppio della bomba atomica del 6 agosto 1945
Hiroshima dopo lo scoppio della bomba atomica del 6 agosto 1945 (Public Domain/Wikipedia)

Come se non bastasse, l’8 agosto, l’Unione Sovietica dichiara guerra al Giappone, un altro nemico da cui difendersi, mentre ancora si contano i morti.
Il 9 agosto, un’altra bomba atomica viene sganciata dagli americani. Questa volta a essere colpita è la città di Nagasaki, le porte dell’inferno sono definitivamente spalancate e chiuderle, ormai, è impossibile.

Il Giappone è in ginocchio, gli americani hanno rivelato la loro capacità militare, in grado di eliminare l’intero Paese. La resa, parola impronunciabile prima di quel 6 agosto, diventa l’unico appiglio possibile, anche per un popolo orgoglioso e pugnace come quello giapponese.

Hirohito è perplesso, diviso fra la prosecuzione del conflitto, come gli raccomandano alcuni consiglieri militari e la capitolazione, come gli consiglia la sua coscienza e il dolore che permea il suo popolo.

La decisione di arrendersi si materializza la notte del 10 agosto 1945 quando l’imperatore riceve il primo ministro Kantaro Suzuki. Ma a corte non tutti sono d’accordo. Tra i militari più di qualcuno giudica la scelta imperiale umiliante, indegna per il popolo giapponese e tra i colletti verdi si comincia a pensare a un colpo di stato, l’unica soluzione per evitare un’ignominiosa resa.

Il “Gyokuon-hōsō” e il tentativo di colpo di stato

Il 14 agosto negli studi della radio nipponica si respira aria di tensione, tutti comprendono la portata dell’evento che sta per compiersi. Non si tratta solo della novità assoluta di un imperatore che parla al suo popolo, per giunta via radio ma della certificazione, attraverso l’etere, dell’ammissione della sconfitta.

Il testo che Hirohito in quella notte agostana sta per leggere, ribattezzato Gyokuon-hōsō (letteralmente “trasmissione della voce del Gioiello”) è stato scritto nelle ore precedenti dai dignitari di corte, un labor limae infinito, fatto di tagli, riprese, aggiustamenti, capziose correzioni.

L’imperatore, quello che per la tradizione giapponese è un dio, si rivolge a suoi «buoni e leali sudditi» e con l’immancabile plurale maiestatis così esordisce:

«Dopo aver ponderato profondamente le tendenze generali del mondo e delle circostanze che si verificano oggi nel nostro impero, abbiamo deciso di definire la situazione attuale ad una misura straordinaria. Abbiamo ordinato al nostro governo di comunicare ai governi degli stati Uniti, della gran Bretagna, della Cina e dell’Unione Sovietica che il nostro impero accetta le disposizioni della loro dichiarazione comune.
Tentare d’ottenere la prosperità e la felicità di tutte le nazioni come pure la sicurezza e il benessere dei nostri sudditi è l’obbligo solenne che è stato trasmesso dai nostri imperiali antenati e che noi abbiamo fortemente a cuore.»

Nello stesso messaggio l’imperatore sottolinea come una simile decisione sia stata dettata essenzialmente dal fatto che il nemico abbia «cominciato a impiegare una nuova bomba, estremamente crudele e disumana, il cui potere distruttivo è, effettivamente, incalcolabile, ed esige il tributo di molte innocenti vite.»

Quando Hirohito termina di registrare il suo messaggio, il prezioso nastro viene affidato al ciambellano di corte che provvede subito a nasconderlo. A corte, infatti, più di qualcuno, specie tra le alte sfere militari, non condivide nulla di quel discorso, consapevole che, qualora venisse irradiato, provocherebbe la definitiva catastrofe.
Per questo nei minuti successivi inizia a muoversi la macchina dei congiurati che da giorni tesse la trama di un possibile colpo di stato.

Tra questi c’è il maggiore Kenji Hatanaka. Pur giovane, l’ufficiale ha le idee molto chiare e, trascorsa la mezzanotte, penetra con diversi soldati dentro la residenza imperiale. L’opposizione inizialmente è tenue e i congiurati hanno vita facile, occupando rapidamente parte del palazzo dove vive Hirohito.

Inizia una ricerca spasmodica del nastro che, però, sembra svanito nel nulla. Viene, perfino, fatto prigioniero il ciambellano ma questi stoicamente resiste, non svelando l’agognato nascondiglio.

Nel pieno della notte le forze fedeli all’imperatore finalmente reagiscono e all’alba la congiura ha termine. I rivoltosi vengono arrestati e Hatanaka, come nella migliore tradizione nipponica, si uccide, sparandosi un colpo di pistola alla tempia.

Sono le dodici in punto, di un caldo 15 agosto, quando dagli apparecchi radio fuoriesce la voce dell’imperatore del Giappone. Lievemente disturbato da rumori di fondo, il sonoro arriva, comunque, piuttosto chiaro. Molte parole, in taluni casi mai ascoltate, sfuggono ai più, incapaci di sintonizzarsi con una lingua decisamente formale, arcaica, con uno stile fiorito e una strana cadenza, distante anni luce da quella che quotidianamente parlano milioni di giapponesi.

Il 2 settembre 1945 ministro degli esteri giapponese Mamoru Shigemitsu firma l'Atto ufficiale di resa del Giappone
Il 2 settembre 1945 ministro degli esteri giapponese Mamoru Shigemitsu firma l’Atto ufficiale di resa del Giappone (Public Domain/Wikipedia)

Ma il senso di quel lungo radiomessaggio è chiaro, al netto di un linguaggio che in taluni casi può apparire astruso. La guerra è finita ma quell’annuncio, pronunciato da Hirohito con una sorta di imbarazzo che sconfina quasi nella vergogna, non produce nei più né gioia, tantomeno un senso di liberazione ma, al contrario, scatena frustrazione, disagio, angoscia.

Molti piangono, altri si disperano, diversi tra i militari preferiscono darsi la morte; ma i più rimangono attoniti, incapaci di manifestare appieno lo sbigottimento provato al cospetto di uno dei momenti più bui della storia del Giappone.
Ma per il popolo dei ciliegi il tempo della disperazione, dell’incredulità non si è ancora concluso.

Il 1° gennaio 1946 ascoltano ancora una volta la voce del loro imperatore. Quella voce timida e ai più ancora astrusa, annuncia, in un discorso scritto sotto dettatura degli americani e che passerà alla storia come la “Dichiarazione di umanità”, che gli imperatori giapponesi non sono di natura divina ma soltanto dei comuni esseri umani.

La reazione del popolo a questo radiomessaggio è di assoluta incredulità, di stordimento, di sostanziale incapacità. Non riescono ad accettare l’umanità del  loro imperatore, ancor meno che la superiorità del popolo giapponese rispetto a tutte le altre razze umane e la sua predestinazione a governare il mondo siano solo una «falsa concezione».
O tempora, o mores!

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