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Eliogabalo, l’imperatore che voleva essere un dio

Il suo nome, Sesto Vario Avito Bassiano, dice francamente poco, al contrario, invece, di un altro epiteto che lo rese celebre: Eliogabalo, l’imperatore romano considerato il più depravato, licenzioso e dissoluto.  

Questo è il racconto di colui che fu imperatore dal 218 al 222 d.C. e che la storia ufficiale cercò di obliare, riuscendoci, però, solo in parte.

Eliogabalo: genesi di un imperatore

Lo storico inglese Gibbon così lo descrisse:

«Eliogabalo, corrotto dalle passioni della gioventù, dai costumi della sua patria e dalla propria prosperità, si abbandonò ai piaceri più grossolani con sfrenato furore e nei godimenti trovò presto la sazietà e la nausea.»

Un quadro abominevole, tale da oscurare figure quali Caligola e Nerone che pure, in tema di dissolutezza e stravaganza, non erano state seconde a nessuno. 

Fu vera “gloria” parafrasando l’illustre Manzoni? Non del tutto.

Il breve regno di Eliogabalo, chiamato in alcune fonti anche Elagabalo e durato solo quattro anni, non fu certo esente da pagine poco dignitose, ma forse su di lui e sulla sua eterna memoria influirono i giudizi poco lusinghieri degli storici coevi che, emuli di Svetonio, tratteggiarono una biografia degna di un depravato. 

Sesto Vario Avito Bassiano salì sul trono più importante del mondo allora conosciuto nel 218 d.C a soli quattordici anni, grazie alla sinergica azione di due donne: la madre, Giulia Soemia e la nonna materna, Giulia Mesa, quest’ultima sorella di Giulia Domna, moglie del defunto imperatore Settimio Severo. 

Le rose di Eliogabalo, Lawrence Alma-Tadema (1888)

Eliogabalo, nativo di Emesa, in Siria, città che proprio Settimio Severo aveva elevato al rango di capitale della provincia della Siria, aveva un albero genealogico di tutto rispetto e non solo per l’importante parentela con un imperatore.

Era, infatti, sempre per parte materna, il pronipote di Giulio Bassiano, marito di Giulia Mesa e, soprattutto, sacerdote del dio El-Gabal, un culto eliaco molto diffuso in Siria ma non del tutto estraneo a Roma. 

Il culto del Dio Sole, una devozione antichissima

La divinizzazione del sole affonda le radici nell’antichità. Non esiste, infatti, una civiltà del passato che non abbia coltivato il culto del sole. Dagli egiziani ai cinesi, passando per la mitologia indù, sono diverse le varianti di una devozione per certi aspetti naturale, inevitabile, vista la centralità del sole nella vita degli esseri umani . 

Presso i babilonesi, tremila anni prima della nascita di Cristo, si onorava Shamash, di fatto il dio Sole, al cui culto vennero associate, in seguito, divinità quali Ishtar, tradizionalmente rappresentata con un’aureola di 12 stelle sul capo (un’iconografia che il cristianesimo recupererà per rappresentare spesso Maria) e suo figlio Tammuz, considerato l’incarnazione del sole.

Nel mondo romano, già a partire dal 158 d.C., il culto del Sol Invictus, cioè del sole invincibile, è ufficialmente attestato da alcune epigrafi e, in seguito, sotto l’imperatore Commodo, da monete riproducenti la divinità solare.

Eliogabalo gran sacerdote del Sole, Simeon Solomon (1866)

Ma è indubbio che a Roma il culto del Sol Invictus si affermerà con forza proprio con la salita al trono di Sesto Vario Avito Bassiano, un culto che si spegnerà alla morte dello stesso ma che troverà un nuovo, inatteso vigore con l’imperatore Aureliano, sotto il quale il culto eliaco assunse il ruolo di vindice della Città Eterna.

Il dio sole, infatti, apparve in sogno all’imperatore prima della decisiva battaglia per la conquista della città di Palmira, governata dalla leggendaria regina Zenobia, un presagio che per Aureliano fu decisivo per la vittoria romana.

Aureliano, ebbro per quella affermazione militare, fece prima erigere sul colle Quirinale un santuario dedicato al dio Sole e poi, nel 274, creò il collegio dei Pontifices Solis.

Il culto del Sol Invictus si attestò a tal punto che sotto l’imperatore Aureliano fu deciso addirittura un giorno specifico in cui onorare tale divinità e questa data cadeva il 25 dicembre, a ridosso, dunque, del solstizio d’inverno, quando il sole vinceva sulle tenebre, in un tripudio di festeggiamenti inneggianti alla luce, al sole.

Un culto che innervò a tal punto la cultura e la società romana da essere poi assimilato dal cristianesimo che scelse quella data, così cara al popolo romano, per ricordare la nascita di Cristo.

L’ascesa di Eliogabalo, il ragazzo venuto dall’Oriente

Sesto Vario Bassiano nasce ad Emesa nel 204 d.C., anche se altre fonti, come Erodiano, attestano la nascita al nel 203 d.C. Figlio di Sesto Vario Marcello, un cavaliere che era stato elevato all’ordine senatorio da Caracalla e di Giulia Soemia, nipote dell’imperatore Settimio Severo. Il ragazzo fin da bambino emerge per bellezza, addirittura paragonabile al giovane Dioniso, come ricorda sempre Erodiano nel Libro V della sua monumentale opera Avvenimenti dopo la morte di Marco Aurelio.

Busto di Macrino,
Musei Capitolini, Roma.
© José Luiz Bernardes Ribeiro
(fonte: Wikipedia)

Poco dopo la sua nascita si inizia a diffondere, specie tra i soldati di stanza in Siria, la voce che sia, in realtà, non il figlio di Sesto Vario, bensì dell’imperatore Caracalla, una diceria mai provata ma utile per i disegni dinastici di Giulia Soemia e, specialmente, di Giulia Mesa.

Il 16 maggio 216, i legionari della guarnigione di Raphaneae, anche convinti dal copioso denaro elargito da Giulia Mesa, proclamano il giovane Sesto Vario Bassiano, imperatore con il nome di Marco Aurelio Antonino, gli stessi epiteti del defunto Caracalla, a sottolineare una paternità che al ragazzo non può che recare vantaggio.

Ma in quel momento esiste già un imperatore e risponde al nome di Macrino che, dall’aprile del 217, siede sullo scomodo trono di Roma. La posizione di Macrino, tuttavia, che ha assunto la carica imperiale senza che il Senato romano sia stato consultato e che ha fatto carriera sotto Caracalla nell’ambito del Pretorio, è sempre più instabile.

L’8 giugno del 216, nei pressi di Antiochia, le truppe di Macrino, anche per le numerose defezioni di soldati transitati nella parte nemica, vengono sconfitte da quelle del giovane Bassiano, guidate dall’eunuco Gannys, consigliere molto ascoltato da Giulia Mesa. 

Con la sconfitta dell’esercito di Macrino e con la sua morte la sfrenata ambizione di Giulia Soemia e soprattutto di Giulia Mesa, la vera artefice di tutto il piano, trova finalmente piena soddisfazione. 

Eliogabalo, imperatore a Roma     

Manca, tuttavia, l’avallo del Senato, un atto formale ma non certo trascurabile, visto il ruolo ancora preminente che l’antica istituzione riveste a Roma.

Sesto Vario Avito Bassiano viene riconosciuto imperatore dal Senato nel 218, a due anni, di fatto, dalla proclamazione ad opera delle legioni.

Deve passare ancora del tempo perché il ragazzo faccia il suo ingresso trionfale nella città di Roma, una città in cui aveva vissuto per alcuni anni da bambino ma che non lo aveva mai conquistato.  Ma alla fine desiste e, anche su pressione della madre e soprattutto della nonna, decide di lasciare l’amato Oriente per l’incognita di Roma.  Nell’autunno del 219 il nuovo imperatore arriva finalmente nella capitale dell’impero.

Il trionfo di Eliogabalo, A. Leroux (1902)

I romani, tuttavia, hanno già familiarizzato con il suo volto in modo decisamente singolare. Accanto alle monete fatte coniare con la sua immagine, sotto alla quale era riportato il nome di Divo Antonio Magno, in onore di Alessandro Magno, è soprattutto un immenso suo dipinto a veicolare in un popolo che non conosce le sue bellissime fattezze.  

Ecco come Erodiano descrisse questa particolare vicenda: 

«Fece dunque dipingere un enorme quadro che raffigurava la sua persona nei panni indossati durante le sue apparizioni pubbliche e le sue cerimonie religiose. Fece dipingere anche il simulacro del suo dio nazionale con sé stesso nell’atto di presentargli un sacrificio. Mandò il quadro a Roma con l’ordine di collocarlo nel mezzo della Curia, e in luogo tanto elevato da sovrastare la statua della Vittoria, in onore della quale tutti i senatori presenti a una seduta erano soliti bruciare incenso e aromi e libare vino. Ordinò inoltre che tutti i magistrati romani e qualunque sacerdote incaricato di celebrare un sacrificio pubblico pronunciassero il nome del nuovo dio Eliogabalo prima di tutti gli dei invocati di solito nel corso delle sacre cerimonie.»

Quella del dipinto e l’obbligo di venerare Eliogabalo sono le prime, singolari avvisaglie che contrassegnano i quattro anni del suo impero.

Poco incline a rispettare i consigli della madre, sempre più preoccupata per le eccessive libertà del figlio, Eliogabalo si lascia andare a una serie di eccentricità, a partire dai frequenti matrimoni, ai quali non segue l’attesa nascita di un erede che salvaguarderebbe la dinastia.

Ma le stravaganze sessuali, quelle legate al suo vestire, così profondamente lontano dalla tradizione romana, le bizzarre nomine che mette in atto (chiama alla prefettura del pretorio un ballerino, come capo dei vigili un auriga, Cordio e come prefetto dell’annona il suo barbiere Claudio) sono poca cosa rispetto alle profonde mutazioni religiose che Eliogabalo decide di introdurre nella società romana. 

Così lo storico inglese Michael Grant descrisse quelle “attività religiose”: 

«Dal regno di Settimio Severo in poi il culto solare si era andato sempre più sostituendo all’intero pantheon religioso dell’epoca; ma Eliogabalo mise da parte ogni tradizione e precauzione mostrando una gran fetta di introdurre nella teologia imperiale di Roma una versione peculiare del culto del sole.»   

È proprio per via di quel culto che a Roma quel giovane imperatore inizia a essere per tutti Eliogabalo, appellativo che soppianta, del tutto, il più pomposo e forse meno realistico, Marco Aurelio Antonino.

Intorno a Eliogabalo iniziano a diffondersi una sequela di narrazioni, talvolta prive di fondamento, specie in ambito sessuale, volte, però, a screditare un ruolo sempre più messo in discussione da quei senatori che fin da subito non hanno accettato il ruolo di subalternità a cui li ha costretti.

Nella loro memoria rimane scolpito l’affronto in occasione della prima volta in cui Eliogabalo mette piede in Senato. In quell’occasione il giovane imperatore comanda, come racconta Elio Lampridio, storico del III secolo dopo Cristo, che la madre non solo sieda sugli scranni abitualmente occupati dai senatori, ma che sia anche presente alla stesura di tutti gli atti politici.

Per l’ingessata e maschilista istituzione senatoriale la presenza di una donna, sebbene madre dell’imperatore, è qualcosa di inaccettabile.

Ma per Eliogabalo, cresciuto da sempre in mezzo a figure femminili, le donne hanno una rilevanza assoluta, tanto da costituire sul colle Quirinale un piccolo senato, tutto al femminile, una istituzione di cui apprezza e non poco i preziosi pareri.      

Ma sono proprio quelle donne tanto amate che iniziano a voltargli le spalle, a cominciare dalla nonna, la potentissima Giulia Mesa che inizia a temere che quei comportamenti dissennati possano minacciare quel potere faticosamente conquistato.

Ancora Erodiano:

«A Mesa non sfuggiva tutto questo, e sospettava che i soldati avrebbero disdegnato un simile regime di vita tenuto da un imperatore. Temeva in particolar modo che a Elagabalo potesse essere fatto del male, cosa che avrebbe significato per lei il ritorno a vita privata. Così persuase l’imperatore, giovane leggero e dissennato, a scegliersi un Cesare, adottando come figlio il proprio cugino, il nipote di Mesa, nato dalla figlia minore Mamea.»

Eliogabalo sulle prime accoglie il suggerimento della nonna di adottare Alessiano ma ben presto si rende conto che dietro quel consiglio, apparentemente ingenuo, si cela un elaborato piano volto a esautorarlo.

La reazione dell’imperatore, a questo punto, è netta. Prima toglie ad Alessiano il titolo di Cesare, poi decide di limitare al minimo gli spostamenti in città, circondandosi della guardia pretoriana, di cui si fida totalmente.

Ma si tratta di decisioni tardive perché ormai Eliogabalo non è solo inviso ai senatori ma, soprattutto, ai militari, senza il cui appoggio a Roma non si può rimanere a lungo in sella. 

La morte di Eliogabalo e la sua damnatio memoriae

Quegli stessi soldati che sei anni prima lo avevano proclamato imperatore, segnano la fine di Eliogabalo.

Roma, 11 marzo 222 d.C. Eliogabalo con la madre Giulia Soemia si trova in un accampamento militare. In quel posto si sente al sicuro, molto di più rispetto al suo suntuoso palazzo, ma non sa che la morte gli cammina accanto, che la sua ora è quasi giunta, che la profezia pronunciata alcuni anni prima da dei sacerdoti, nella natia Emesa, che avevano vaticinato una morte violenta, sta fatalmente per avverarsi.

Elio Lampridio, autore di una Vita di Eliogabalo, uno scritto non certo agiografico, racconta come l’imperatore, proprio in virtù del vaticinio sacerdotale, avesse ideato più di un possibile suicidio, dalle funi intrecciate di porpora con cui strozzarsi, alle spade d’oro con cui trafiggersi, arrivando a pensare perfino a una torre, appositamente fatta costruire, da cui all’evenienza gettarsi.

Stravaganti modalità, in linea con l’eccentricità di Eliogabalo, ma che sono del tutto inutili perché la morte arriva prima e in quel modo violento che anni addietro gli era stato annunciato.

Sono le sue guardie personali, come nella migliore tradizione imperiale, a ucciderlo insieme alla madre che sperava, invece, di essere risparmiata.

La ferocia degli assassini di Eliogabalo è incontrollata. I corpi dell’imperatore e della madre sono trascinati per le vie di Roma, lasciati dentro delle cloache e, alla fine di quella grottesca esposizione, vengono gettati nel Tevere, dove finisce nel peggiore dei modi la breve parabola di Eliogabalo.

Nel giro di poco tempo su di lui scende la damnatio memoriae, mannaia inesorabile che cancella rapidamente il ricordo dell’imperatore venuto dalla Siria.

La pietra nera che simboleggia il dio di Emesa e che Eliogabalo aveva fortemente voluto a Roma, viene rimandata nella città di origine, un atto deliberato volto a rispedire al mittente un culto che non si è ancora del tutto radicato ma soprattutto destinato a estirpare il ricordo di un imperatore che sognava di diventare un dio.

Eliogabalo riuscì in soli quattro anni a far impallidire personalità del calibro di Caligola, Nerone, Vitellio, grazie anche a cronache non del tutto sincere e obiettive che crearono l’immagine del più folle, depravato, imperatore della storia. Un anarchico incoronato, come lo descrisse magistralmente il commediografo francese Antonin Artaud nel suo Eliogabalo, probabilmente il più adatto per raccontare un personaggio che fece della sua vita un inno all’irregolarità, all’anarchia, alla trasgressione, proprio come Artaud.

«Eliogabalo ha avuto presto il senso dell’unità, che è alla base di tutti i miti e di tutti i nomi; e la sua decisione di chiamarsi Elagabalus, e l’accanimento ch’egli pose a far dimenticare e il suo nome, e a identificarsi col dio che li copre, è una prima prova del suo monoteismo magico, che non è solo verbo ma azione.»

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