Fatti della Storia

La strage di via Fani e il mistero della Honda blu

Strage di via Fani, mistero dell'Honda blu

In quel maledetto 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro, sulla scena della strage via Fani c’era, stando almeno a quanto emerso dai processi, una grossa moto di colore blu, una Honda per l’esattezza, a bordo della quale si trovavano due persone. 

La presenza della Honda blu rimane, a distanza di più di quarant’anni da quel tragico giorno, uno degli enigmi irrisolti, al punto che lo storico Vladimiro Satta, non certo uno incline a perorare il mare magnum dei misteri seguiti alla strage di via Fani, definisce, nel suo Il caso Moro e i suoi falsi misteri, il problema dell’identità dei due motociclisti sulla Honda come «l’interrogativo più importante sul caso Moro, tra i pochi che rimangono aperti.»

Chi erano quei due occupanti? Perché si trovavano in via Fani? Hanno davvero sparato? Questo è il racconto di quell’enigma, uno dei tanti del Caso Moro

Strage di via Fani, ore 9:02, si spalancano le porte dell’inferno

Roma, 16 marzo 1978, ore 9:00 circa. In via Mario Fani transitano due autovetture, molto vicine una all’altra. La prima è una Fiat 130 di colore blu, la seconda, invece, è un’Alfetta di colore bianco. Non è raro vedere procedere in quella strada, che la toponomastica ha dedicato all’attivista cattolico Mario Fani, quelle due vetture. Succede quotidianamente e tutti nel quartiere sanno che sull’auto scura siede Aldo Moro.

Strage di via Fani: l'auto su cui viaggiava l'On. Aldo Moro
Strage di via Fani: l’auto su cui viaggiava l’On. Aldo Moro

Il leader democristiano, più volte presidente del consiglio nonché ministro, quel giovedì 16 marzo si sta recando alla Camera dei deputati, in piazza di Montecitorio a Roma, dove, di lì a poco, sarà data la fiducia al quarto governo Andreotti, esecutivo che otterrà anche il voto dei comunisti.

Un esito non certo scontato, figlio di una lunga trattativa condotta tenacemente da Moro e da Enrico Berlinguer, il segretario del Pci, un accordo storico, «un momento essenziale – come ha scritto Giovanni Bianconi nel suo 16 marzo 1978 – della realizzazione della “terza fase”, nella quale i due principali partiti, di massa e popolari, possono incidere sulla trasformazione del capitalismo italiano.»  Ma Moro alla Camera non arriverà mai.

Alle 9:02, all’incrocio fra via Fani e via Stresa, la macchina con a bordo il politico democristiano e quella di scorta che segue, vengono crivellate da quasi un centinaio di colpi esplosi da sei armi, quattro mitragliette e due pistole semiautomatiche, impugnate da un gruppo di terroristi presenti in via Mario Fani. L’esito di quell’attentato è drammatico.

Tutti gli uomini della scorta, sia quelli presenti sulla Fiat 130 che sulla macchina che segue vengono uccisi. Non tutti, però, muoiono all’istante. Francesco Zizzi che sull’Alfetta siede accanto a Giulio Rivera, muore alcune ore dopo, all’ospedale Agostino Gemelli, dove è giunto in condizioni disperate.

La mattanza sì è appena conclusa, Moro, illeso, è stato fatto salire su una Fiat 132 che lesta lascia quel teatro di sangue con stridore di gomme per darsi alla fuga.

Il mistero della Honda blu nella strage di via Fani

In via Fani, quel maledetto 16 marzo c’è anche Alessandro Marini, di professione ingegnere che in sella sul suo motorino in quella strada sta transitando in senso contrario a quello delle vetture coinvolte nella strage.

La strage di Via Fani
16 marzo 1978, i rilievi in Via Fani dopo il rapimento dell’ On. Aldo Moro
che ha causato l’uccisione della sua scorta

Marini è nel posto e momento sbagliato, inconsapevole testimone sul palcoscenico della Storia.

Questa la sua testimonianza resa, poco dopo, nei locali della questura di Roma: 

«È stato un susseguirsi di numerosissimi colpi di arma da fuoco. A questo punto – dieci, venti o trenta secondi dopo – ho visto affiancare la macchina centrale (la Fiat 130 su cui siede Moro NdR) da un’altra autovettura Fiat di colore che mi sembrava scuro, e contemporaneamente ho visto due individui aprire la portiera posteriore della 130 blu, afferrare una persona di una certa età, con i capelli brizzolati, e trasbordarla sull’autovettura Fiat che gli si era affiancata. A questo punto credo di aver riconosciuto nella persona trasbordata l’onorevole Moro. Quest’ultima autovettura, con stridio di gomme, è scattata per via Stresa in direzione Primavalle-Monte Mario, seguita da una Honda di grossa cilindrata di colore blu, a bordo della quale c’erano due individui, dei quali quello seduto sul sedile posteriore, col passamontagna scuro, ha esploso vari colpi di mitra nella mia direzione, praticamente ad altezza d’uomo, perdendo proprio nell’incrocio un caricatore che è finito in terra.»

Un caricatore, effettivamente, viene recuperato sulla scena della strage di via Fani accanto a un berretto d’aviere, ma molto probabilmente è caduto dal mitra di Raffaele Fiore, l’unico, dei quattro del commando, a cui l’arma, come dallo stesso più volte affermato, si inceppa ben due volte.

In seguito Marini, nel corso delle numerose dichiarazioni che rilascia agli inquirenti, fornisce altri particolari in merito ai due occupanti della Honda. In un’occasione afferma che uno dei due indossava un passamontagna mentre l’altro era a viso scoperto e somigliante a un giovane Eduardo De Filippo. 

A questi precisi dettagli si contrappone, invece, l’incertezza su chi abbia effettivamente sparato. In talune circostanze Marini sostiene che ad aver fatto fuoco è stato il conducente, in altre, invece, il passeggero. Confusione che serpeggia pure sull’effettiva causa della rottura del parabrezza del suo motorino.

Se il 26 settembre 1978, nella seconda deposizione dopo quella del 16 marzo, l’attribuisce a uno dei proiettili esplosi dal passeggero della Honda, che colpisce «la parte superiore del parabrezza del motorino» ma non lui che rimane incolume, riuscendo istintivamente ad abbassarsi, molti anni dopo, il 17 maggio 1994, fornisce una spiegazione ben diversa:

«Ricordo che quel giorno, in via Fani, il parabrezza si è infranto cadendo a terra proprio dividendosi in questi due pezzi che ho successivamente consegnato alla polizia.»

Sulla presenza della moto, però, Marini non ha dubbi, al pari di un altro testimone. Quel maledetto 16 marzo, infatti, sulla scena di uno dei fatti epocali della nostra Repubblica, c’è anche Giovanni Intrevado, 23 anni, guardia di Pubblica sicurezza, in forza al reparto mobile. Come testimonierà in seguito, giunge all’incrocio tra via Fani e via Stresa, a bordo della sua Fiat 500 grigia, quando la sparatoria è già conclusa.

Il poliziotto, tuttavia, non rilascia subito alcuna dichiarazione, lo fa solo diversi giorni dopo, il 5 aprile, motivando così questo inusuale ritardo:

«Mi sono presentato soltanto adesso perché sono rimasto scioccato da tutto quello che ho visto, ed anche perché ero impaurito non essendo potuto intervenire nei fatti perché la mia pistola si era inceppata.» 

Una testimonianza tardiva ma non avara di contenuti. Intrevado racconta al magistrato Luciano Infelisi, titolare dell’inchiesta su via Fani, di aver visto due uomini in divisa trascinare una persona «rassomigliante ad Aldo Moro» che viene fatta salire su una Fiat 132 ma riferisce anche di aver visto una ragazza in piedi, al centro dell’incrocio, con nella mano destra un mitra M12, la quale, vedendolo sopraggiungere a bordo della Fiat 500, gli punta l’arma contro, urlandogli di fermarsi e di tornare indietro.

Intrevado scorge, dunque, i due terroristi che sequestrano Moro, vede una donna imbracciare un mitra ma, soprattutto, vede sfrecciare «una moto di grossa cilindrata con due persone a bordo.»

Di una moto di grossa cilindrata parla anche un terzo testimone, Luca Moschini che agli inquirenti riferirà di aver notato, mentre sta attraversando perpendicolarmente l’incrocio di via Fani, una Honda di colore bordeaux, accanto a due avieri, posizionati sul marciapiede antistante il bar Olivetti. Ma Moschini non vede armi e, soprattutto, non sente sparare.

Tre testimonianze diverse che concordano solo sulla presenza di una moto Honda, anche se due, Intravedo e Marini, la vedono in movimento, e uno, invece, Moschini, la nota in sosta. Ma di quella moto, però, non parlano gli altri numerosi testimoni, tra cui il signor Conti, colui che effettua la prima chiamata al 113 per avvisare della strage.

Le ipotesi sulla Honda blu della strage di via Fani

Sulla presenza della Honda in via Fani la magistratura, almeno inizialmente, non ha dubbi. Fondando il proprio giudizio sulla testimonianza dell’ingegner Marini che, al netto delle non poche contraddizioni, è ritenuta totalmente affidabile, i giudici condannano Valerio Morucci per concorso in tentato omicidio del Marini da parte degli ignoti motociclisti. 

La netta posizione assunta dai giudici dà ufficialmente l’abbrivio a un’infinita ridda di ipotesi su chi siano i due oscuri occupanti della Honda, responsabili, addirittura, di un tentato omicidio ai danni di un possibile testimone oculare.

La prima congettura, la più semplice e scontata, è quella che si tratti di altri due brigatisti, il cui compito è quello di partecipare all’attacco terroristico in via Fani, operando con funzioni di staffetta e, al tempo stesso, di vedetta.

Mario Moretti, brigatista che guidò il nucleo armato nella strage di Via Fani

Un’ipotesi percorribile, mai del tutto confermata e, sicuramente, sempre smentita da coloro che presero parte alla strage di via Fani che hanno sempre ribadito, Moretti in primis, che se quella moto è stata davvero presente, di certo, non aveva a che fare con la loro organizzazione.

Si congettura anche che il conducente e il passeggero della misteriosa Honda blu non siano dei brigatisti, bensì degli appartenenti di Autonomia operaia, tesi sposata anche da Giovanni Pellegrino, esponente del Pci, nonché presidente dell’ex Commissione Stragi per il quale, come riporta nel libro I nemici della Repubblica di Vladimiro Satta, «i due della Honda erano venuti a sapere dell’agguato che si preparava ed erano curiosi di assistere alla scena di persona o, forse, andarono sul posto in cerca di gloria.» 

Ovviamente in questa girandola di ipotesi non può mancare quella complottista, in base alla quale i due occupanti della Honda altri non sono che due agenti segreti, tesi che serpeggia inevitabilmente fin da subito, ma che solo anni dopo assurgerà ai fasti della cronaca giudiziaria.

È il 10 ottobre 2010 quando alla redazione del quotidiano La Stampa di Torino viene recapitata una lettera adespota, che promette rilevazioni sorprendenti. L’anonimo estensore, divorato da un cancro che non gli lascia speranze, decide di vuotare il sacco, confessando di essere il passeggero della fantomatica Honda blu.

«La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere.»

Una missiva dal contenuto scioccante, in cui vengono tirati in ballo addirittura i servizi segreti, nella persona del colonello Camillo Guglielmi, un ufficiale del Sismi che il deputato comunista Sergio Flamigni, già membro delle Commissioni d’inchiesta sul caso Moro e sulla P2, nonché autore di più di un saggio sulla vicenda Moro, definisce «uno dei migliori addestratori di Gladio, esperto di tecniche di imboscata, che lui stesso insegnava nella base sarda di Capo Marrargiu dove si esercitavano anche gli uomini di Stay Behind».

Un profilo, dunque, non certo marginale quello di Guglielmi che, in effetti, nei pressi di via Fani, quel tragico 16 marzo c’è stato davvero, come lo stesso ufficiale confermerà anni dopo alla magistratura.

Nello specifico dichiara di essersi recato in via Stresa da un amico per motivi personali e non di servizio, approfittando di una licenza. Puntualizza, però, che il 16 marzo 1978 egli non apparteneva ancora al Sismi, essendovi entrato mesi dopo e che, comunque, come riporta Vladimiro Satta nel già citato I nemici della Repubblica «quell’ufficio a lui affidato dal servizio segreto militare non si occupò mai di Moro.»

Su quella lettera anonima che il quotidiano torinese gira immediatamente alla questura di Torino per opportuni accertamenti, nel febbraio 2011, inizia a indagare l’ispettore di polizia Enrico Rossi. Questi scopre l’identità del presunto conducente, si tratta del fotografo Antonio Fissore che, oltretutto, si viene a sapere possiede ben due pistole, seppur regolarmente denunciate.

Le informazioni ricavate dal Rossi, tuttavia, non sortiscono alcun tipo di effetto, visto che nei confronti del Fissore, eccezion fatta per una denuncia per incauta custodia delle due armi, rimaste nella casa dell’ex moglie a Bra, la magistratura decide di non procedere, archiviando il caso.

Tre anni dopo Rossi, oramai in pensione, decide di tornare sulla questione della lettera anonima, rilasciando un’intervista a Paolo Cucchiarelli, redattore dell’Ansa, a cui racconta di essere stato contrario all’archiviazione dell’inchiesta su Fissore e di aver trovato fin da subito ostacoli nella sua indagine.

L’intervista rilasciata il 23 marzo 2014 un effetto lo ottiene, quello di riaprire ufficialmente il caso. A indagare è la Procura di Roma, nella persona del procuratore Luigi Campoli ma la nuova inchiesta non porta a nulla, anche perché i principali attori sono tutti morti. 

La conclusione, come lo stesso procuratore generale scrive nella requisitoria finale, è che non esistono elementi per avvalorare né l’ipotesi, adombrata nella lettera anonima, per cui Fissore e il suo passeggero fossero alle dipendenze di Guglielmi e dunque del Sismi, ma neppure quella che la lettera sia stata scritta dallo stesso Fissore.

All’ipotesi dei servizi segreti non ha mai creduto sicuramente Gianremo Armeni, collaboratore del mensile Limes nonché autore del libro Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, dedicato proprio all’intricata vicenda della Honda blu e dei suoi misteriosi occupanti. 

Armeni, non solo ritiene infondata l’ipotesi dei servizi segreti, non essendo verosimile che uomini dei servizi, o altri specialisti ingaggiati per un’operazione così delicata, agiscano in modo così dilettantesco, ma avanza forti dubbi addirittura sulla reale presenza della Honda in via Fani, una verità basata solo sulle dichiarazioni, non prive di incongruenze, di due testimoni. 

La vicenda della Honda blu, al netto delle inchieste giudiziarie e giornalistiche, rimane, a distanza di più di quarant’anni un mistero, perso in ipotesi che potrebbero aggiungere qualcosa di davvero rilevante a uno dei fatti nodali della nostra storia, solo se l’identità dei due supposti motociclisti fosse diversa da quella di due brigatisti o, meglio, di due semplici estranei, transitanti su una delle strade destinazione la Storia.

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